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egli anni compresi tra il 652 e il 1200, la supremazia musulmana sui mari provocò la divisione del mondo civilizzato, al quale seguì l’annientamento del cristianesimo nordafricano.
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I saraceni erano popolazioni semite che avevano abbracciato l’Islam poiché il loro atavico istinto di predoni aveva trovato sollecitazioni nella nuova fede. Per cinque secoli, milioni di cristiani subirono inenarrabili sofferenze che sconvolsero il tradizionale modo di vita, incidendo profondamente sui caratteri, le abitudini, e sull'assetto economico-politico sud-Europeo. Lo spopolamento delle città, la fuga dalle riviere, la nascita dei castelli e di borghi costruiti su inaccessibili dirupi, sono ancora una testimonianza visiva che rammenta lo stravolgimento sociale causato dalla pirateria saracena. […] I saraceni avevano le loro basi in Tunisia e in Libia; lo scopo dei pirati, che non avevano alcun senso dell ’onore militare, era quello di saccheggiare, uccidere, e catturare schiavi d’ambo i sessi. Queste azioni erano necessarie per indebolire le parti più ricche dell’impero bizantino, presupposto per un’occupazione militare con relativo trasferimento di popolazioni arabe, operazione che riuscì in Sicilia ma fallì in Sardegna. I capi saraceni erano di una crudeltà inaudita come si ricava dalle stesse fonti arabe; il racconto delle efferatezze generava un terrore tale da provocare esodi massicci nei boschi o sulle montagne. I briganti arabi nel 934 assalirono Genova catturando un migliaio di donne. La sorte degli schiavi era quanto di più inumano si possa immaginare; anche i cristiani sconfiggendo i musulmani li rendevano schiavi incatenandoli alle galere, ma la sorte di questi ultimi era immensamente migliore dei disgraziati che finivano a Tunisi o ad Algeri. La condizione dei prigionieri catturati dai genovesi, ad esempio, benché dura era più umana, e soprattutto i cristiani non catturavano donne. La sorte dei cristiani caduti nelle mani dei saraceni era invece spaventosa. Ciò si ricava dai racconti dei laici e dei religiosi che dedicarono la vita al riscatto dei poveretti caduti in cattività. Le più attive congregazioni sorte per questo nobile scopo furono quelle dei “Trinitari” del provenzale San Giovanni Matha, e dei “Mercedari” fondati dallo spagnolo San Pietro Nolasco. I primi religiosi giunti nel 1199 a Tunisi trovarono una condizione da inferno dantesco, una situazione di avvilimento e frustrazione che conduceva i miseri ad uno stato di follia. La cattura degli schiavi in Europa era molto selettiva; le donne, alcune già violentate durante le razzie, dovevano essere avvenenti e gli uomini giovani e robusti; gli europei, infatti, si dimostravano più laboriosi degli schiavi neri, anch’essi catturati nell’avanzata islamica verso l’Africa sub-sahariana. La sorte delle donne era di diventare concubine di emiri o di personaggi facoltosi, gli uomini erano impiegati nei campi e nelle miniere; la destinazione dei prigionieri erano i mercati dell'Arabia e della Mesopotamia. Nessuno può dire con esattezza quanti furono i deportati; sicuramente decine di migliaia, considerando che i numeri disponibili sono quelli delle grandi città siciliane da cui era più difficile fuggire. Il fenomeno iniziato nel settimo secolo toccò il culmine nell'XI secolo, poi i saraceni passarono la mano ai turchi (barbareschi).[1]
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Cavalieri e fanti saraceni
Da qui la possibilità che l’attacco via mare a Larino possa essere avvenuto nel corso di questa seconda penetrazione in Adriatico. Tuttavia, considerati i movimenti della flotta berbera, che ci portano a verificare come la costa molisana non si trovi affatto sulla linea di navigazione da Taranto al Quarnaro, appare assai più probabile – a meno che non si voglia considerare un’omissione del cronista veneto – che l’incursione che interessò Larino e la Frentania, almeno quella dal mare, sia avvenuta nel corso della prima scorreria, e con ogni probabilità sulla via del ritorno – Larino difatti non era chiaramente il loro obiettivo principale –; e quindi possiamo forse più verosimilmente collocarla nella primavera (primi di aprile?) dell’841, cosicché possiamo pensare che agli Anconetani fatti schiavi si siano aggiunti anche non pochi abitanti di Larino.
nella via del ritorno si diedero a pirateggiare qui e là, dov’era facile, in mare e in terra fino al canale d’Otranto
Dalle fonti arabe sappiamo poi che nel territorio basso-molisano questa dolorosa evenienza è effettivamente documentata:
Quest’anno il paggio Şâbir, uscito ad una terza scorreria, trovandosi con quattro navi sole, incontrò lo stratego che n’avea sette. Lo stratego fu rotto e Şâbir prese la città di Termoli, nella quale fe’ prigioni molte donne e bambini, e ritornò ad ’Al Mahdîah.[4]
Termoli è ricordata anche in un altro documento arabo:
L’anno 6438 (929-30) lo Schiavone assalì in persona la Calabria per la terza volta; prese una rôcca chiamata T.rmûlah (Termoli) e raccolse dodici mila prigioni.[5]
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Per contro, sappiamo che «Agareni… venerunt depredationes, et occisiones, et devastationes facientes in omnibus locis, tam in terra, quàm in mari, et circa littora»[6], e le fonti fissano all’842 l’incursione nella Frentania (Roland. Mon., Chron. S. Steph. riv. maris, ed. P. Saraceni, Chieti 1876: «Anno Domini DCCCXLII. Indictione quinta»), sicché la “distruzione” di Larino viene fatta risalire a quella data [G.B. Pollidoro, Vita et antiqua monimenta…, p. 50: «Larinum anno Domini DCCCXLII. ab Agarenis diripitur, et vastatur» (il Pollidoro, che scrive nel XVIII secolo, si basa chiaramente sul monaco Rolando)].
Dobbiamo quindi supporre che l’assalto fatale avvenne via terra nell’842 – secondo il monaco Rolando, che scriveva alla fine del XII secolo[7] – oppure ipotizzarlo via mare e dare perciò maggior credito alla fonte più antica – il diacono Giovanni di Venezia, che compilò il Chronicon agli inizi dell’XI secolo –, e pertanto collocare l’incursione devastatrice nella primavera dell’841. D’altronde il Pollidoro, riportando una serie di fonti non univoche, intitola il suo XIV capitolo proprio «Quandiu Frentanos, aliasque finitimas Regiones infestaverint?» (op. cit., p. 50).
Si dovrebbe, in quest’ultimo caso, retrodatare di un anno il trafugamento dei corpi dei Santi Martiri Larinesi per mano dei Lesinesi e la successiva “traslazione” delle reliquie di San Pardo, ovvero ritenere che tutta la vicenda si dipanò dalla primavera dell’841 a quella dell’anno seguente. |
Saraceni ovvero Agareni
La tradizione vuole che in quell’occasione la città venne distrutta. Contra: G. e A. Magliano, (Larino, pp. 157 ss.); A. Magliano (Brevi Cenni storici…, pp. 29 ss.), secondo i quali l’antica città sopravvisse ancora per altri quattro secoli e mezzo circa, per finire razziata e incendiata intorno all’anno 1300, sempre per mano di sparute bande di Saraceni, transfughi dalla città di Lucera, dove erano stati concentrati da Federico II tra il 1224 e il 1246, deportativi dalla Sicilia, poiché diventati elementi di disturbo. Per il Masciotta invece, la città antica venne distrutta nel 1352, per mano degli Ungari – ma sarebbe più opportuno parlare di Ungheresi – al comando di Corrado Lupo [in ted. Konrad Wolf von Wolfurt] (G.B. Masciotta, Il Molise dalle origini ai nostri giorni, p. 146). Per il Priori infine la città cessò di esistere in quanto tale intorno al 1318 (La Frentania, II, p. 288).
Tuttavia, a mettere una parola quasi definitiva alla questione contribuisce la ricerca archeologica, la quale c’informa del fatto che l’antico abitato romano venne radicalmente abbandonato già in epoca successiva al IV secolo, visto che la popolazione si era trasferita altrove, benché le più recenti acquisizioni scientifiche tendano a ridimensionare la repentinità di questo processo, che con ogni probabilità fu assai più graduale e dilazionato nel tempo, arrivando a toccare il suo più evidente carattere di destrutturazione e ruralizzazione solo nella seconda metà del VI e in pieno VII secolo, così come avvenuto in altre realtà urbane dell’Italia meridionale (A. Di Niro, Larinum e Larino: la difficile convivenza, p. 127; Ead., Larinum, in Samnium, p. 267; E. De Felice, Larinum, p. 46 e n. 206; G. De Benedittis, La Provincia Samnii e la viabilità romana, p. 97).
In ogni caso, l’incursione saracena si sarebbe limitata in pratica alla distruzione e al saccheggio dei pochi edifici significativi dell’antico abitato tardoantico: il monastero benedettino, l’isolato dov’era il palatium del signore longobardo e l’annessa basilica micaelica detta “di S. Angelo a Palazzo” ovvero l’antica Cattedrale sprovvista oramai del suo vescovo - l’antica Diocesi era in quell’epoca soggetta a Benevento -, gli altri edifici di culto disseminati qua e là, qualche villa isolata lungo le direttrici della furiosa aggressione. Il termine “distruzione” potrebbe essere entrato nella memoria collettiva a significare più che altro la “distruzione spirituale” della città, vale a dire la perdita irrimediabile dei Corpi Santi.
Pertanto parlare di distruzione totale, in questo frangente, appare del tutto improprio, giacché i Saraceni, organizzati in agguerrite bande di taglieggiatori, erano usi più che altro a devastare e incendiare quel tanto necessario per impossessarsi di beni e persone da ridurre in schiavitù, tanto che sarebbe più opportuno evocare il saccheggio, cui possiamo pensare si siano unite altre aberranti azioni tipiche di quelle bande di predoni, quali lo stupro e le violenze gratuite (vd. analoghe considerazioni in G. e A. Magliano, op. cit., p. 159). Difatti, appena qualche anno dopo, a metà marzo dell’847, «ad Alarinum perveniat», col suo composito esercito, Ludovico, figlio dell’imperatore franco Lotario I, proprio per contrastare i Saraceni che infestavano la regione beneventana [Hlotarius I, Capitulare de expeditione cit., p. 67].
Il grosso della popolazione peraltro, mutate le condizioni socio-economiche dell’area, era da secoli insediato in zone periferiche.
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Curioso, ad ogni modo, il fatto che a nessuno storico sia passato per la mente domandarsi quale fosse stata la sorte toccata ai monaci benedettini che custodivano i Sacri Corpi al momento dell’incursione – il Pietrantonio (I Benedettini…, p. 145) pensa al sacro edificio, ma non ai monaci –, visto che il monastero era già in piedi nel 726: furono trucidati come accadde altrove e quindi da considerarsi anch’essi martiri? Fuggirono lasciando i Corpi Santi alla mercé dei Berberi infedeli? Se la diedero a gambe perfino quando si presentarono i Lesinesi – da presumere disarmati – per “traslarli”? Un mistero avvolge tutta quanta la vicenda!
Tuttavia si fa osservare che i Saraceni mai si sarebbero fatti sfuggire un’ambita preda quale poteva essere un monastero, soprattutto se posto in posizione strategica a controllare la valle e quindi ben visibile, situato per di più proprio all’ingresso della città, oramai in gran parte abbandonata, e nemmeno tanto protetto – «inter murum et muricinum» – e perciò possiamo credere che l’aggressione saracena mirasse principalmente al suo saccheggio.
Qualche anno dopo (846) i Berberi arrivarono persino a razziare la basilica di San Pietro a Roma, portando via anche l’altare che era sulla tomba dell’Apostolo[8]; nella regione frentana distrussero conventi e chiese, compresa l’abbazia di Santo Stefano in Rivo Maris (851) [D. Priori, op. cit., II, p. 79 e n. 7]; nelle zone interne misero a saccheggio per due volte (861 e 881) l’abbazia di San Vincenzo al Volturno, per ultimo radendola al suolo e trucidando un gran numero di monaci (G. Musca, L’emirato di Bari, pp. 66, 130-132). Analoga sorte toccò anche ai monasteri di Montecassino (883) e di San Clemente a Casauria (916) [Leo Mars. seu Ost. et Petr. Diac., Chron. mon. Casin, ed. cit., p. 602; Johan. Mon. S. Vinc., Chron.Vult. (703-1071) I, ed. V. Federici : FISI V, Roma 1925, p. 231].
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La furia devastatrice delle orde saracene si rivolse anche al Santuario garganico di San Michele: verso la
fine dell’869 i Saraceni, stanziati oramai nel loro emirato di Bari, guidati dall’emiro Sawdān e forti di duemila cavalli, rubati alle retroguardie franche durante una pausa
dell’assedio franco-longobardo, proprio per fiaccare il morale degli assedianti «ad
ecclesiam sancti Michahelis in monte Gargano perrexerunt, et clericos eiusdem ecclesiæ multosque alios qui ad orationem illuc convenerant deprædantes, cum multa spolia ad sua
redierunt»[9]. L’incursione provocò anche gravi danni alle strutture murarie, per cui l’ecclesia Sancti Michaelis si presentava «deserta e ruinosa» (F. Ughelli, Italia sacra cit., VIII, coll. 44-45). Il saccheggio si ripeté nel 910 (Chron. Com. Capuæe : MGH, Scriptores III, ed. G. Pertz, Hannoveræ 1839, p. 208) e nel 952, senza però provocare quei danni registratisi quasi un secolo prima (Ann. Benev. : ibid., p. 175).
Pare che nemmeno in quei drammatici frangenti il pellegrinaggio al Santuario garganico sia venuto meno, così come attesta il monaco franco Bernardo, giunto al Monte intorno all’870 (G. Otranto, Il pellegrinaggio micaelico…, p. 344); contra l’Angelillis (Il Santuario del Gargano…, II, p. 267), il quale sostiene che i Saraceni tennero il Santuario per circa trent’anni – fino alla caduta dell’emirato di Bari (871) –, talché il pellegrinaggio si rese impossibile; la pensa allo stesso modo Franco Cardini, secondo cui tra VII e X secolo si ebbe un forte calo dei pellegrinaggi (I pellegrinaggi, p. 278).
Bibliografia:
C. Angelillis, Il Santuario del Gargano e il culto di S. Michele nel mondo, II, Foggia 1956, rist. anast. Monte Sant’Angelo 1995 Annales Beneventani (788-1130) : MGH, Scriptores III, ed. G.H. Pertz, Hannoveræ 1839, pp. 173-185
F. Cardini, I pellegrinaggi, in Strumenti tempi e luoghi della comunicazione nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle undecime giornate normanno-sveve, edd. G. Musca-V. Sivo, Bari 1995, pp. 275-299 Chronicon Comitum Capuæe : MGH, Scriptores III, ed. G.H. Pertz, Hannoveræ 1839, pp. 207-210 Chronica Sancti Benedicti Casinensis (568-867) : MGH, Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum sæc. VI-IX, ed. G. Waitz, Hannoveræ 1878, pp. 467-480 Cronicon siculum Ab an. Chr. 827 ad an. 963. ex codice arabico Cantabrigiensi, trad. it. (La cronaca siculo-saracena di Cambridge, in M. Amari, Biblioteca arabo-sicula, I, Roma-Torino 1880, pp. 277-293)
G. De Benedittis, La Provincia Samnii e la viabilità romana, con la collaborazione di D. Caiazza, (Quaderni dell’Associazione 4), Cerro al Volturno 2010
E. De Felice, Larinum, Firenze 1994
A. Di Niro, Larinum e Larino: la difficile convivenza, in «Proposte molisane 1982», 1, Campobasso 1982, pp. 122-142
A. Di Niro, Larinum, in Samnium. Archeologia del Molise (Catalogo della Mostra), edd. S. Capini-A. Di Niro, Roma 1991, pp. 263-267
R. Gatto, recens. R. Panetta, I Saraceni in Italia, Milano 1998
Hlotarius I Germaniæ, Capitulare de expeditione contra Sarracenos facienda (846) : MGH, Leges sectio II, Capitularia regum Francorum II, edd.A. Boretius-V. Krause, Hannoveræ 1893, pp. 65-68
Ibn ‘Iḏârî, Kitāb al-Bayān al-Mughrib (البيانالمغرب), La dilettevole esposizione, in M. Amari, Biblioteca arabo-sicula, II, Torino-Roma 1881, pp. 1-40
Johannes Diaconus, Chronicon Venetum usque ad annum 1008 : FISI, Cronache veneziane antichissime, ed. G. Monticolo, I, Roma 1890, pp. 59-171
Johannes S. Vincentii Monachus, Chronicon Vulturnense (703-1071), I, ed. V. Federici : FISI V, Roma 1925
Leo Marsicanus seu Ostiensis Cardinalis et Petrus Diaconus, Chronica monasterii Casinensis, I: MGH, Scriptores VII, ed.W. Wattenbach, Hannoveræ 1846, pp. 551-844
A. Magliano, Brevi Cenni storici sulla Città di Larino, Larino 1925, rist. anast. Larino 1986
G. e A. Magliano, Larino. Considerazioni storiche sulla Città di Larino, Campobasso 1895, rist. anast. Larino 2003
G. Masciotta, Il Molise dalle origini ai nostri giorni. Il Circondario di Larino, IV, Cava dei Tirreni 1952, rist. Campobasso 1985
G. Musca, L’emirato di Bari (847-871), Bari 1967, rist. Bari 1978
G. Otranto, Il pellegrinaggio micaelico dal Gargano all’Europa, in R. Barcellona-T. Sardella (edd.), «Munera amicitiæ». Studi di storia e cultura sulla Tarda Antichità offerti a Salvatore Pricoco, Soveria Mannelli 2003, pp. 329-360
U. Pietrantonio, I Benedettini nella diocesi di Larino, in «Archivio Storico Molisano» IV/V (1980-1981), pp. 139-153
G.B. Pollidoro, Vita et antiqua monimenta Sancti Pardi Episcopi, et Confessoris in Cathedrali Templo Larinensi quiescentis…, Romæ 1741
D. Priori, La Frentania, II, Lanciano 1959, rist. anast. Lanciano 1980
Prudentius Trecensis, Annales Bertiniani : MGH, Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum V, ed. G. Waitz, Hannoveræ 1883, pp. 1-54
Rolandus Monachus, Chronicon rerum memorabilium monasterii S. Stephani Protomartyris ad rivum maris, ed. P. Saraceni, Chieti 1876 [= M. Schipa, La Cronaca di S. Stefano ad rivum maris, in «Archivio Storico per le Province Napoletane» 10 (1885), pp. 534-574]
F. Ughelli, Italia sacra sive de Episcopis Italiæ…, VIII, Venetiis 1721, rist. anast. Bologna-Sala Bolognese 1974
[1]
R. Gatto, recens. Rinaldo Panetta, I Saraceni in Italia, Milano 1998.
[2] Johan.
Diac., Chron. Venet.
usque ad an. 1008 : FISI, Cronache veneziane antichissime, ed. G. Monticolo, I,
Roma 1890, pp. 113-114.
[3] Ibid., p. 114; vd. anche G.
e A. Magliano, Larino, Campobasso 1895, rist. anast. Larino 2003, pp. 156-157; A.
Magliano, Brevi Cenni storici sulla Città di Larino, p. 29; D.
Priori, La
Frentania, II, Lanciano 1959, rist. anast. Lanciano 1980, p. 79.
[4] Ibn
‘Iḏârî, Kitāb al-Bayān al-Mughrib (La dilettevole esposizione), Anno 317 (14
febb. 929-2 febb. 930), in M.
Amari, Biblioteca arabo-sicula, II, Torino-Roma 1881, p. 29. [5] Cronicon siculum. Ab an. Chr. 827 ad an. 963. ex cod. arabico Cantabrigiensi (La cronaca siculo-saracena di Cambridge), in M. Amari, op. cit., I, Torino 1880, p. 284. |
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