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assiamo ora a considerare quella che è forse la ricostruzione più problematica fra tutte quelle presentate, nel corso degli anni, dagli storici locali, i quali ebbero ad interessarsi della vicende terrene dei Martiri Larinesi. Essa appare essere quella indubitabilmente più discutibile, presentata con dovizia di riferimenti e agganci più o meno solidi alle “evidenze” archeologico-storico-artistiche. |
Per chiarire, senza voler considerare la diversità anche politica tra Pentri e Frentani in età pre-romana – sempre che Larinum sia stata una città frentana piuttosto che daunia –, sin dall’epoca di Augusto[12] i due centri facevano parte di entità amministrative diverse. Tra il 9 e il 14 d.C., difatti, il primo Princeps aveva costituito le undici Regiones italiche – realtà amministrative che concedevano larghe autonomie ai municipia –, smembrando il territorio frentano pertinente a Larino dal resto della Frentania e accorpandolo alla regio II Apulia et Calabria (per «Calabria» s’intende l’attuale Salento) [G. Volpe, Contadini, pastori e mercanti nell’Apulia tardoantica, p. 259 e n. 12]. A nord la regione aveva proprio il fiume Biferno [Tifernus] come confine.
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Questa suddivisione venne sostanzialmente confermata in epoca tetrarchica (290/293 d.C.), qual è per l’appunto quella durante la quale avvenne il martirio dei tre Santi, con l’istituzione della provincia Apulia e Calabria, avente per capoluogo Canusium [od. Canosa], benché il suo ruolo le venisse conteso in origine da altre realtà urbane. Ricordiamo che la riforma amministrativa dioclezianea aveva diviso l’Italia in sette province: Aemilia et Liguria, Venetia et Histria, Tuscia et Umbia, Flaminia et Picenum, Campania, Apulia et Calabria, Lucania et Bruttii.
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Al tempo di Diocleziano Larinum era dunque una cospicua e florida civitas apula da tre secoli almeno, posta in un centro nevralgico di comunicazioni stradali tra la costa adriatica e il Sannio e quindi la Campania – vista la strozzatura dello Stivale in questo preciso tratto, che ne consentiva un più rapido attraversamento –, con plurisecolari e stretti rapporti economici e culturali con le altre realtà urbane dell’Apulia settentrionale (G. De Benedittis, Larinum e la «Daunia settentrionale», pp. 516-521).
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Diversamente abbiamo notizia di Terventum – ricadente nella provincia Campaniæ, cui il Sannio fu annesso fino al 346 –, di cui in epoca antica è accertata l’irrilevanza, considerato che i «riferimenti delle fonti antiche sono rari e poveri di contenuto – ad es. Plinio si limita ad elencare i Tereventinates tra le popolazioni del Sannio (Nat. hist. III,106) – riflettendo la scarsa importanza del centro e il suo isolamento» (M. Matteini Chiari, Terventum, pp. 143-182, qui p. 144; vd. anche A. Di Niro, Terventum, in Samnium, p. 255).
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Chiarito questo punto preliminare, passiamo a delineare il paesaggio di quella che il Ferrara chiama la «IV Provincia originaria: il Sannio pentro-frentano», in particolare per quanto riguarda la situazione socio-economica dei municipia romani, incluso quello di Terventum, ed analizziamo quel che dicono gli studi archeologici sugli ipotizzati luoghi di provvisoria sepoltura descritti dal nostro Autore:
il centro pentro, con i suoi soli 10 ettari di superficie interna alle mura – contro i 90 di Larinum –, tanto che le fonti la definiscono come semplice oppidum, senza mura di cinta difensive (M. Matteini Chiari, loc. cit., p. 181), era un «centro urbano… piuttosto piccolo. E pertanto si pensa che dovesse servire quasi esclusivamente ad assolvere funzioni amministrative territoriali» (G. d’Henry, La riorganizzazione del Sannio nell’Italia romanizzata. Introduzione, p. 207) in una parte del Sannio scarsamente popolata, in cui gli abitanti – anche in età imperiale – erano dispersi per lo più in vici e case isolate poste lungo il fiume Trinius [od. Trigno] (M. Matteini Chiari, loc. cit., p. 174, n. 2, pp. 180, 182; vd. anche F. Coarelli-A. La Regina, Abruzzo Molise, p. 273).
Difatti erano assai numerose le ville rustiche, che denotavano la necessità di articolare la localizzazione degli insediamenti in siti climaticamente più favorevoli e più vicini ai percorsi, uno dei quali era costituito proprio dalla fondovalle del Trigno. Nei suoi pressi la ricerca archeologica ha potuto identificare almeno tre di tali insediamenti, due dei quali sono per l’appunto quelli considerati dal nostro Autore nei suoi scritti (A. Di Niro, loc. cit., p. 255; I.M. Iasiello, Samnium, pp. 170-172).
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Così sappiamo che «finalizzate alla produzione specializzata di vino e/o olio erano senza dubbio le ville di Canneto e di S. Fabiano. Della prima… si conoscono alcuni ambienti pavimentali a mosaici… relativi alla parte padronale nella sua sistemazione del III sec. d.C.» (ibid., p. 256.), che fu anche l’ultima fase architettonica della villa, visto che venne per breve tempo abbandonata, a causa di uno straripamento del fiume, per rimanere definitivamente deserta, forse nel VII secolo (ibid., p. 256, n. 6.). Dallo scavo di essa sono emersi ambienti pertinenti alla cella vinaria (o olearia), con relativo frantoio e altri ambienti collegati nonché una fornace per la produzione di vasi (ibid.; sul complesso di Santa Maria di Canneto vd. anche M. Matteini Chiari, loc. cit., pp. 166-173, che pure smentisce la presenza di qualsiasi tempietto pagano trasformato in cristiano).
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Nulla viene rilevato dall’archeologia, che sola avrebbe potuto certificarne l’esistenza o almeno adombrarla, del cosiddetto «tempietto pagano abbandonato» immaginato dal Ferrara.
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Purtroppo identica sorte tocca anche all’altro sito preso in esame, la villa di San Fabiano, dove gli scavi hanno ritenuto di individuare una villa rustica, di fondazione tardo-repubblicana, facente capo a un’azienda agricola di notevoli proporzioni, dalla cui esplorazione sul terreno sono risultati diversi ambienti, per lo più disotterrati nella sua pars urbana, che rivelano una planimetria piuttosto articolata, con stanze talvolta anche porticate, e ambienti termali, costruiti probabilmente nel I secolo d.C., demolendo le colonne del portico (M. Matteini Chiari, loc. cit., pp. 165-166; A. Di Niro, Roccavivara, villa rustica, pp. 213-215; F. Coarelli-A. La Regina, op. cit., p. 274). Anche questo complesso venne abbandonato al suo destino, sebbene sporadicamente frequentato fino all’Alto Medioevo, quando si apportarono numerosi adattamenti per abbeveraggio di bestiame e tutta la costruzione venne adoperata per ricavarne materiali di spoglio.
Anche qui nulla è rilevato a proposito del «deserto oratorio» propostoci dal nostro Autore.
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La cosiddetta “cripta di San Casto”, che sarebbe stata, secondo il prelato di Montefalcone del Sannio (V. Ferrara, Il vescovo abusivo cit., p. 570; Id., La cripta ed il battistero cit., pp. 580, 623), la meta finale di quelle estenuanti quattro traslazioni, viene da taluni studiosi stimata romana, ma «Ad una più attenta valutazione sembra che ciò sia da escludere. La muratura è da riferirisi alla fabbrica medievale, che forse riutilizzò per l’occasione materiale antico, d’altra parte abbondantemente reimpiegato nell’edificazione di tutta la cripta» (M. Matteini Chiari, loc. cit., p. 155; vd. anche U. Pietrantonio, op. cit., pp. 16-17 per altri studi che la datano ad epoche variabili dall’VIII al XII secolo). Essa peraltro viene ritenuta sorta su un edificio di culto pagano dedicato a Diana a motivo di un’iscrizione e di un’ara, che sarebbe «in realtà… uno spezzone di pilastro medioevale» (M. Matteini Chiari, loc. cit., p. 156, n. 2).
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Appare inoltre assai problematico sostenere che questi supposti luoghi di culto pagano, ritenuti dalle autorità ecclesiastiche dell’epoca al pari di “luoghi demoniaci”, abbiano potuto ospitare i resti mortali di martiri cristiani appena qualche anno dopo il cosiddetto Editto di Milano del 313, col Cristianesimo non ancora religione di Stato, benché in essi non via sia rimasta alcuna traccia cultuale significativa (F. Gandolfo, Luoghi dei santi e luoghi dei demoni: il riuso dei templi nel Medioevo, passim).
Né gli studi archeologici né quelli storici vengono dunque a sostegno della ricostruzione proposta da mons. Ferrara.
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Assai diverso – e lo dico non per spirito di campanile, ma perché così è nei fatti – il caso di Larinum, che in quell’epoca avrà avuto certamente una popolazione urbana di alcune decine di migliaia di abitanti, senza contare il suo fertile e popoloso ager, tale da giustificare la presenza all’interno delle sue mura di un Anfiteatro. E difatti la sua centralità si ritrova anche in epoche di poco successive, quando i Pontefici affideranno proprio ai vescovi di Larino delicati incarichi, da espletare anche al di fuori dei confini della propria diocesi, segno incontestabile del ruolo e del prestigio di cui godevano i presuli larinesi in tutta l’area centro-meridionale (G. Nigro, Il Molise paleocristiano..., p. 99).
Si veda ad es. l’affidamento al vescovo Giovanni, da parte del papa Pelagio I (556-561), del compito di impedire che i laici s’intromettessero nel controllo dell’andamento produttivo delle colture «de monasteriis in Lucania et Samnio constitutis» [Ep. 87,in Pelagii I papæ epistulæ quæ supersunt (556-561), edd. P.M. Gassò-C.M. Batlle, Montserrat 1956, pp. 212-213].
Nulla di tutto questo, ancora una volta, per Terventum.
Per quanto attiene ai rapporti tra i due municipi, essi dovettero essere, allora come ai nostri giorni, del tutto sporadici, per via della posizione geografica che li vede appollaiati su colline poste a dominio di due diverse vallate, incomparabili per fertilità e comodità di transito, non collegati direttamente da alcun tratturo o strada, ed inoltre separati da alti colli: l’imponente Monte Mauro (1042 m), la Serra Guardiola (669 m) e il Colle Marasca (919 m).
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La questione è negativamente risolta anche da qualificati addetti ai lavori, uno almeno dei quali ritiene che debba considerarsi «“fantasiosa” l’ipotesi avanzata negli anni scorsi, circa il ruolo di Diacono, Suddiacono e Notaio regionale attribuito ai nostri Santi ed i luoghi della loro evangelizzazione»[17].
Venendo poi all’origine dei nostri Santi Martiri, pur concedendo che essi potessero non essere necessariamente nati nella città frentana, non si vede perché indicarli di provenienza romana; sarebbe più logico pensare, come io ritengo, rifacendomi in qualche modo a quanto sostenuto dal Ricci, che, se proprio si volesse pensare a una loro origine non indigena, siano stati inviati da una località apula posta sulla costa, quali Siponto (G. Otranto, op. cit., pp. 187-202) o Salapia (ibid., pp. 159 ss.), dove il Vangelo venne certamente annunciato tra la fine del III e gli inizi del IV secolo.
Appare anzi del tutto ragionevole il ritenere che essi siano stati personaggi ben noti in tutta l’Apulia settentrionale, sicché le vicende legate al loro martirio trovarono in quelle terre vasta eco, tanto che le loro limpide figure sarebbero rimaste a lungo nel ricordo di tutti.
Con la fine delle persecuzioni, le loro tombe definitive nella città di Larino, realtà urbana ben collegata coi maggiori centri e luogo di sosta delle mandrie transumanti, sarebbero potute tranquillamente divenire poli di attrazione di devoti di tutta quella parte della provincia romana nonché dei territori contigui ad essa (per questo delicato passaggio cfr. P. Brezzi, op. cit., pp. 84-132). Da qui il furtum delle loro reliquie avvenuto in epoca più tarda, ad opera proprio di popolazioni daune.
Ad irrobustire questa ipotesi stanno alcuni fatti incontrovertibili: innanzi tutto l’esistenza di un antico documento, il Martyrologium Hieronymianum (metà del V secolo), che annota un San Casto martire dell’Apulia (G. Mammarella, Da vicino e da lontano, p. 125; Id., Larino Sacra, II, San Severo 2000, p. 68). Non irrilevante inoltre la presenza di due edifici di culto intitolati a due dei nostri Martiri al di fuori del territorio larinate, di cui si ha memoria, a Torremaggiore - chiesa di San Primiano - e a Foiano di Val Fortore - chiesa di San Firmiano -, i quali, benché eretti molto più tardi, ricadevano entrambi nell’antica provincia Apulia et Calabria.
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Il fatto, dunque, che San Casto sia stato il «diacono incaricato di evangelizzare quell’ambito geoantropico del Sannio Pentro», avente Terventum come principale centro di riferimento non risulta avere alcuna solida base storica.
Irragionevole ritenere che i vescovi di Roma s’interessassero, durante il III secolo, che vide almeno due periodi di persecuzione violenta, in cui trovarono la morte quattro di loro, di un misconosciuto municipium dell’appennino sannita, qual era il centro pentro.
Ci si riferisce alle azioni anticristiane intraprese da Decio (autunno 249-marzo 251) e da Valeriano (estate 257-fine 259) [L. Hertling-E. Kirschbaum, Le catacombe romane e i loro martiri, pp. 121-129; P. Brezzi, Dalle persecuzioni alla pace di Costantino, pp. 48-62]. È anche vero che dopo di esse la Chiesa beneficiò di un periodo di circa quarant’anni – la c.d. “Piccola pace” –, in cui poté fare proseliti in molte realtà urbane della Penisola italiana; ma ritenere il piccolo e marginale abitato di Terventum in cima ai pensieri della Chiesa romana ovvero dei presuli delle maggiori realtà urbane dell’Italia centro-meridionale, appare cosa del tutto fantasiosa.
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Ricordiamo che papa Fabiano (236-250) fu una delle prime vittime della persecuzione di Decio (20 gennaio 250); abbiamo poi Cornelio (marzo/aprile 251-giugno 253), morto in esilio a Centumcellæ [od. Civitavecchia, Roma], ma considerato martire a tutti gli effetti (Cypr., Epist. 61,3 : CSEL III/2, p. 696), al pari di Lucio I (253- 254), che lo seguì nell’esilio (ibid., pp. 695-698); infine Sisto II (257-258), che venne decapitato nel cimitero di Callisto il 6 agosto del 258, insieme a quattro diaconi – Vincenzo, Stefano, Gennaro e Magno (Felicissimo e Agapito subirono il martirio a Pretestato) – mentre predicava ad altri cristiani, durante la persecuzione di Valeriano (Cypr., Epist. 80,1 : CSEL III/2, p. 840). Quattro giorni dopo, il 10 agosto, fu messo a morte l’ultimo dei sette diaconi di Sisto, Lorenzo, e proprio in quell’estate le reliquie di Pietro e Paolo vennero messe in sicurezza nel locus ad catacumbas (poi Basilca Apostolorum, quindi di San Sebastiano) [su questa persecuzione vd. P. Jounel, L’été 258 dans le calendrier romain, in «La Maison-Dieu» 52 (1957), pp. 44-58].
La ricostruzione propostaci nemmeno sta in piedi se si consideri l’incongruità di destinare un diacono ad una regione relativamente poco popolata, com’era quella pertinente al piccolo municipium di Terventum, ed invece solo un suddiacono – Primiano – in un popoloso territorio qual era allora l’Apulia settentrionale – vale a dire il Larinas ager –, col suo capoluogo; problematico, poi, l’affidamento della restante parte dell’Apulia al notaio regionale Firmiano.
È utile ribadire che i diaconi erano figure corrispondenti al grado più basso del clero superiore. In quanto diretti assistenti del vescovo i loro compiti erano diversi: sostegno ai poveri, amministrazione dei beni, amministrazione dell’Eucaristia e, se richiesti, anche del sacramento del Battesimo. Spesso erano molto più influenti dei presbiteri, benché di rango inferiore, tanto da essere definiti «orecchio e bocca, cuore e anima» del vescovo [Didascalìa II,44] (K. Bihlmeyer-H. Tüchle, Storia della Chiesa, I. L’Antichità Cristiana, pp. 132-133). I suddiaconi erano gli immediati assistenti dei diaconi (ibid., p. 133).
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Altro elemento assai rilevante che, a mio avviso, relega le asserzioni del nostro Autore alle pure ricostruzioni senza basi solide, è rappresentato dal giorno in cui il martire Casto viene ricordato nel paese di Trivento, che è il 4 luglio.
Risulta assai problematico accettare il fatto che, per commemorare uno stesso Santo, ci si trovi, in due centri nemmeno troppo distanti, di fronte a due date diverse: se infatti al martirio di San Casto, accettato come avvenuto il 16 maggio del 304, fossero stati presenti cittadini di Terventum, che si sarebbero poi incaricati di trafugarne le spoglie, non si capisce il motivo per cui non si provvide a ricordarne il dies natalis proprio il 16 maggio e si sentì invece il bisogno di inventarsi un’altra data. Va detto che nella chiesa antica ricordare i martiri proprio in quel giorno era quasi altrettanto fondamentale che farlo solo davanti alle loro tombe (A. Amore, op. cit., p. 240, n. 10).
A rafforzare questa logica obiezione sta la circostanza che i Lucerini e i Lesinesi, i quali certamente sapevano del culto reso ai Martiri nella città di Larino, per esservi magari andati a venerarli presso le loro tombe proprio in quei giorni di metà maggio, una volta trafugati i corpi, conservarono tuttavia nel loro atto di venerazione proprio il 15 maggio per entrambi (G.A. Tria, Memorie Storiche…, pp. 745 ss.; G. Mammarella, I Santi Martiri Larinesi, pp. 25 ss.). Eppure il furtum sacrum avvenne ben cinque secoli abbondanti dal martirio!
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Si dà poi per storicamente certa, nella ricostruzione presa in
oggetto, il martirio avvenuto all’interno dell’Anfiteatro cittadino; ed
anzi dalla presenza di un siffatto edificio, avente funzione di «cassa di risonanza»,
si parte per sostenere la sostanziale marginalità della cittadinanza larinate rispetto all’opera evangelizzatrice dei tre fratelli: l’Anfiteatro era solo a Larino e perciò lo
“spettacolo” del martirio doveva avvenire a Larino. Senonché la plurisecolare tradizione parla di morte per decapitazione, unica pena prevista per i cittadini romani, anche se poi il sentire del popolo ha accolto in parte la damnatio ad bestias, che probabilmente interessò altri membri della comunità – i non cittadini – «quorum nomina Deus scit».
Infine e soprattutto non sta in piedi, a parer mio, l’avventurosa traslazione a tappe delle reliquie del martire Casto – altrimenti denominate «graduali e provvisorie tappe di avvicinamento», altrove definite «successive sepolture provvisorie» – qui durata a occhio mezzo secolo circa, che sarebbe avvenuta addirittura «silenziosamente e senza scalpore di fatuo ed esteriore trionfalismo» (vd. supra), inaugurando in tal modo un nuovo genere di traslazioni – tutto triventino –, in contrasto con quel che dicono i Padri e le fonti antiche sulle più tarde traslazioni delle reliquie martiriali.
Si vedano ad es. le trionfali traslazioni operate da Sant’Ambrogio, che fecero da modello a quelle successive nell’Occidente latino (P. Brown, Il culto dei santi, p. 54).
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La ricostruzione presentata dal Ferrara rappresenta pertanto la negazione assoluta del modo in cui era concepito il culto dei martiri nella chiesa primitiva.
Difatti, data finalmente la pace alla Chiesa, il culto riservato ai campioni della fede, che avevano testimoniato col loro sangue la fedeltà al Cristo, iniziò a prendere piede ovunque e il mos occidentalis, su cui vigilava l’autorità della Chiesa romana, che proibiva la partizione dei loro Corpi Santi, a vantaggio della venerazione in situ, consentì un flusso di pellegrini verso le tombe venerate che andò via via aumentando, da cui vennero generati santuari rinomatissimi, che diventarono veri e propri motori di una più consapevole evangelizzazione dei territori interessati.
La traslazione vera e propria di reliquie o i furta sacra si verificarono con una certa frequenza molto più tardi, allorché venne meno il controllo delle autorità centrali della Chiesa romana, ed anzi anche a Roma si ebbero numerose spoliazioni, a partire soprattutto dal pontificato di Teodoro I (642-649), il quale forse proprio a motivo della sua origine gerosolimitana, orbitante cioè nell’area siro-greca, nella cui concezione non si dava alcun valore alle reliquiæ ex contactu – come il nostro “palio” di San Primiano –, che per secoli avevano preservato le tombe dalle manomissioni, permise che il tradizionale principio della intangibilità dei sepolcri venerati venisse superato [sui furti di reliquie: E. Dupré Theseider, La «grande rapina dei corpi santi» dall’Italia al tempo di Ottone I, Wiesbaden 1964; P.J. Geary, Furta sacra. Thefts of Relics in the Central Middle Ages, Princeton (N.J.) 1978; brevi ma significative annotazioni in G. Luongo, Alla ricerca del sacro. Le traslazioni dei santi in epoca altomedievale, Napoli-Roma 1990, pp. 17-39].
Sotto questo Pontefice di origine orientale si ebbero a Roma le prime vere traslazioni, coi resti mortali dei Santi Primo e Feliciano, dal santuario sulla Via Nomentana a quello urbano di Santo Stefano Rotondo (Lib. Pont., I, p. 332; cfr. p. 334; Cod. Top., II, p. 152). A questa prima traslazione seguirono quelle operate sotto Leone II (682-683) per i resti di Viatrice, Faustino e Simpliciano, e quelle sotto Paolo I (757-767), che portò tra le mura aureliane i corpi dei martiri rimasti nei santuari extra-mœnia andati in rovina.
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Solo l’abbandono delle campagne, cagionato dalle invasioni barbariche, ed il rischio di profanazioni e distruzioni – come avvenne, in qualche modo, nel caso dei Martiri Larinesi, in occasione del già ricordato evento dell’842 –, finirono col fare accettare una pratica che in Occidente era stata sempre contrastata (F. Cardini, loc. cit., pp. 1022 ss.).
Ultimi tentativi di conservare il culto presso le tombe originarie furono fatti sotto Adriano I (772-795) e Leone III (796-816), i quali restaurarono le costruzioni fatiscenti e ripristinarono il culto liturgico del dies natalis là dove il sito era particolarmnet venerato [P. Testini, op. cit., p. 134; L. Hertling-E. Kirschbaum, op. cit., pp. 42-44; J. Sumption, Monaci santuari pellegrini, pp. 35 ss.; L. Canetti, Frammenti di eternità, p. 45; per approfondimenti sugli interventi manutentivi: L. Spera, Cantieri edilizi a Roma in età carolingia: gli interventi di papa Adriano I (772-795) nei santuari delle catacombe. Strategie e modalità di intervento, in RAC 73 (1997), pp. 185-254].
Registriamo comunque che su queste traslazioni – specialmente romane – di reliquie martiriali, vengono sollevati forti dubbi dalla moderna ricerca agiografica (vd. ad es. l’annotazione negativa in A. Amore, op. cit., p. 155, n. 65: «la storia delle traslazioni dei corpi santi dai cimiteri romani è tutta da rifare»; vd. anche p. 174, n. 57).
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A seguito di questo generale lassismo, si moltiplicarono le divisioni dei corpi, col pretesto che le loro reliquie dovessero essere necessarie per la consacrazione degli altari, e andarono via via aumentando i casi di vero e proprio mercimonio o addirittura i furti di esse, soprattutto a vantaggio di facoltosi privati, come ad es. gli imperatori di Bisanzio, o anche di paesi, per lo più nordeuropei, di più recente evangelizzazione, le cui comunità non disponevano, se non in pochi di casi, di reliquie martiriali.
Ricordiamo che proprio all’epoca carolingia risale difatti la cosiddetta “traslazione” delle reliquie di Primiano e Firmiano, operata a vantaggio di Lesina.
Aumentata la domanda rispetto all’offerta, per un basilare principio economico, cominciò a verificarsi con incredibile velocità anche il deleterio fenomeno della moltiplicazione delle reliquie, magari autenticate addirittura dalle autorità ecclesiastiche, benché palesemente false, fino ad imbatterci in figure di veri e propri venditori ambulanti di esse, la cui provenienza non poteva che dirsi quantomeno dubbia; e Dio non voglia che il caso triventino ricada proprio in quest’ultima tipologia, riconducibile a quello delle due teste di San Giovanni Battista venerate a Costantinopoli nel V secolo, cui se ne aggiunse ahimè una terza nell’XI, spuntata fuori a Saint-Jean d’Angely [dép. Charente-Maritime], nella Francia centrale; sempre che non si tratti piuttosto della invenzione ex nihilo, di un Santo cioè mai esistito nella località pentra, per cui il tardo culto sarebbe da collegare a un ritrovamento di generiche ossa, così come pure accadeva spesso nel Medioevo (H. Delehaye, Le leggende agiografiche, p. 237).
Poteva anche aversi il caso che il culto di un santo fosse alimentato dalla presenza di reliquiæ ex contactu, cioè brandea, ritenute erroneamente reliquiæ ex corpore, prese talvolta addirittura per un corpo intero e di un santo indigeno.
La dispersione di frammenti di Corpi Santi in ogni parte delle regioni cristiane comportò spesso la nascita simultanea di più edifici di culto dedicati a uno stesso santo, nei quali poteva capitare che la sua biografia venisse adattata alle tradizioni locali, fino a dar vita a un culto parallelo, in cui il santo straniero diveniva a tutti gli effetti indigeno, benché le sue vicende biografiche non avessero oramai nulla di storicamente fondato, avvolta com’era nella leggenda tutta quanta la sua vita terrena (P. Testini, op. cit., pp. 134-135).
Un San Casto, piuttosto leggendario, è ad es. venerato ad Acquaviva, presso San Vincenzo al Volturno (S. Moffa, Martiri del Molise…, p. 106).
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Detto tutto ciò, immaginare un San Casto “itinerante” nel IV secolo, le cui reliquie vengono tranquillamente asportate – ma sareppe più opportuno, data la precocità della supposta prima traslazione (304), parlare di “corpo sezionato” –, contravvenendo a tutte le disposizioni sopra ricordate, senza che ne rimanga traccia nella memoria della popolazione larinate, quindi portate a spasso qua e là per la Frentania meridionale e il Sannio Pentro, manomettendole di fatto non una, ma ben quattro volte nell’arco di poco più di cinquant’anni, proprio nel periodo in cui la religione cristiana si andava affermando come culto di Stato ed iniziava a diffondersi sempre di più il culto martiriale sulle tombe originarie, che dava origine a pellegrinaggi affollatissimi, originatisi anche a molta distanza dalla tomba, non risulta avere alcuna base storica minimamente credibile.
Si veda ad es. il culto di San Felice a Cimitile, presso Nola [prov. Napoli], fiorito in special modo all’inizio del V secolo su diretto impulso di San Paolino, tributato da pellegrini provenienti da tutta l’Italia meridionale, particolarmente nel suo dies natalis che era il 14 gennaio, così come attestato in diversi carmina dello stesso Santo nolano (Carmina natalicia, ed. G. Hartel : CSEL XXX, pp. 1-357).
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Che i tre Santi Martiri Larinesi siano stati degli evangelizzatori è del tutto fuor di dubbio; che fossero i capi della comunità è abbastanza probabile, almeno per uno di loro; che la comunità cristiana di Larinum e del suo ager, poi divenuta nucleo della futura sua diocesi, fosse abbastanza cospicua da giustificare una persecuzione appare inequivocabile; che all’interno di essa molti altri abbiano seguito come miti agnellini i loro pastori nell’andare incontro al lupo famelico istigato dagli editti imperiali affiora come la cosa più probabile che si possa sostenere; che il loro ricordo sia vivo nella loro Città è il tributo dovuto a chi col sangue fecondò, in queste contrade inaridite da false credenze e da incancreniti comportamenti immorali, riportatici crudamente dall’Arpinate – che persistono tuttora –, la Chiesa di Cristo.
Ma per meglio concludere, e più felicemente, faccio mie le parole del papa Giovanni Paolo II, in visita nel Molise il 19 marzo 1983:
Affido questi pensieri e questi voti […] ai Santi Martiri Larinesi, la cui intercessione invoco oggi, per voi tutti, perché come loro sappiate vivere con rinnovato impegno le esigenze della fede e della solidarietà umana, di cui essi furono testimoni e campioni esemplari.[23]
Bibliografia:
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G. De
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F. Valente, La Cripta di S. Casto nella cattedrale di Trivento (sito web, post 9 luglio 2008) R. Valentini-G. Zucchetti, Codice topografico della città di Roma, II, Roma1942 [1] Mons. Ferrara (n. Montefalcone del Sannio, 1933) svolge attualmente l’incarico di Giudice del Tribunale Regionale del Lazio presso il Vicariato di Roma per cause di nullità matrimoniale e, dal 1° dicembre 2009, è anche canonico della Basilica Papale di S. Maria Maggiore. [2] La storiografia più accreditata riconosce ancora valida l’indicazione del Lanzoni [Le Diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (an. 604), I, Faenza 19272, rist. anast. Modena 1980, p. 379] circa l’origine della diocesi di Trivento, che la colloca al X sec., in seguito allo spostamento della sede da Alfedena [prov. L’Aquila] (agli anni 494-495 è menzionato un Episcopus civitatis Aufidianæ) [ibid.], che a sua volta – fra la fine del V ed il VI sec. – ne aveva ereditato la funzione dall’antica Aufidena [od. Castel di Sangro, L’Aquila]. Sulla questione vd. comunque M. Matteini Chiari, Terventum, in «QuadTopAnt» VI (1974), p. 160 e n. 2. [3] V. Ferrara, La vicenda storica ed archeologica di “Santa Maria di Canneto” sul fiume Trigno, in «Archivio Storico Molisano» VII (1983-1984), p. 47. [7] V. Ferrara, Il vescovo abusivo,in Storia della Chiesa in Italia, in «Jesus» 2 (1986), p. 570, citato da S. Moffa, Martiri del Molise delle primitive comunità cristiane, in «Almanacco del Molise 1989», II, Campobasso 1989, p. 114. [8] Id., La diocesi di Trivento tra quelle del Sannio Molisano nel V secolo, in «Almanacco del Molise 1987», II, p. 104. [11] Alle pp. 382-383 della sua opera più corposa (La Diocesi di Trivento cit.), il Ferrara annota: «Il “Martirologio Gerolimiano”… annovera per la Regione “Apulia” (Daunia), alla quale apparteneva la Frentania del Sannio con Larino sia dopo la riforma regionale fatta dall’Imperatore Augusto e sia dopo quella correttiva patrocinata da papa San Fabiano, un martire di nome “casto”». Ebbene, che un Vescovo di Roma – in carica dal 236 (Eus., Hist. eccl. VI,29) – ricordato tra le prime vittime della persecuzione di Decio [20 gennaio 250 (B.SS. V, coll. 425-427)], potesse addirittura “patrocinare”, col Cristianesimo ancora perseguito, una riforma amministrativa della Penisola, appare affermazione destituita di ogni fondamento logico e storico. Il Pontefice, in realtà, intorno all’anno 240 si limitò a ricalcare, in ambito ecclesiastico, la suddivisione amministrativa dell’Urbe in 14 regiones, volute dall’Imperatore [le regiones civili erano le seguenti: I Porta Capena, II Cælimontium, III Isis et Serapis, IV Templum Pacis, V Esquiliæ, VI Alta Semita, VII Via Lata, VIII Forum Romanum, IX Circus Flaminius, X Palatium, XI Circus Maximus, XII Piscina Publica, XIII Aventinus, XIV Transtiberim; ogni regio era suddivisa in quartieri (vici) e dotata di un corpo fisso di polizia urbana e di servizio antincendio, dislocato in sette caserme (stationes), ciascuna responsabile di due regiones (R.A. Staccioli, Roma entro le mura, Roma 1979, pp. 19-20; per approfondimenti: F. Clementi, Roma imperiale nelle XIV regioni augustee, Roma 1935)]. Il provvedimento papale fu probabilmente giustificato dal continuo aumento, in numero e in superficie, dei cimiteri cristiani, talché si rese necessaria una suddivisone di compiti mediante la costituzione di sette regioni ecclesiastiche (Lib. Pont., I, p. 148: «regiones divisit diaconibus et multas fabricas per cœmetria fieri iussit»), con un rapporto che parrebbe essere all’incirca di una di esse per due delle regiones augustee. Questa la suddivisone di massima del territorio dell’Urbe nelle sette regioni ecclesiastiche: I – tra la Via Ostiense e l’Appia (regiones civili XII e XIII): Tituli Sabinæ, Priscæ, S. Balbinæ (o Tigridæ), Fasciolæ; II – tra la Via Appia e la Labicana (regiones civili I, II, VIII, X, XI): Tituli Anastasiæ, SS. Quattuor Coronatorum (o Hemilianæ o Nicomedis), Bizantiis, S. Xysti (o Crescientianæ); III – tra la Via Labicana e la Tiburtina (regiones civili III e V): Tituli Eusebii (SS. Marcellini et Petri), Clementis, Apostolorum, Equitii (o anche S. Laurentii o Cyriacæ); IV – ai due lati della Via Nomentana (regiones civili IV e VI): Tituli Praxedis, Pudentis, Vestinæ, Cyriaci, Gaii, Pudentianæ; V – tra la Via Salaria e la Flaminia (regiones civili VII e IX): Titulus Lucinæ (o in Lucinis); VI – tra la Via Aurelia nova e la Trionfale (regio civile IX): Tituli Damasi, Marci, Marcelli; VII – tra la Via Aurelia vetus e la Portuense, fino all’Ostiense (regio civile XIV): Tituli Iulii, Chrysogoni, Cæciliæ [P. Testini, Archeologia Cristiana, Bari 19802, pp. 156-158, 616; per approfondimenti: G.B. De Rossi, La Roma sotterranea cristiana descritta ed illustrata, III, Roma 1877, pp. 514 ss.]. Probabilmente il Ferrara attribuisce erroneamente un provvedimento ecclesiastico che interessò l’Urbe all’intero territorio della Penisola, fraintendendo il significato che in questo contesto romano si conferisce al termine regio. [12] «La suddivisione augustea rimase in vigore fino al 164, quando l’imperatore Marco Aurelio istituì le regiones iuridicorum, che interessavano l’Italia dalle Alpi alla Calabria ad esclusione dell’urbica diocesis (Roma e il suo territorio circostante per un raggio di cento miglia)» [G. De Benedittis, La Provincia Samnii e la viabilità romana, Cerro al Volturno 2010, p. 10]. [13] Qualche studioso arriva a sostenere che Larino sia sempre stata etnicamente e culturalmente una città dauna e non frentana [E. Salvatore Laurelli, Origine etnica dauna di Larino dalla ricerca di Geografia e Topografia nella Daunia antica, Larino 1992; vd. anche G. De Benedittis, Larinum e la «Daunia settentrionale»,in«Athenæum», 65 III/IV (1987), pp. 516-521, in cui appare chiaro come ormai da secoli i comuni interessi economico-culturali tra Larino e la Daunia si erano andati sempre più consolidandosi, tanto da consigliare l’imperatore Augusto di prendere atto della mutata situazione della città frentana e del suo ager; l’argomento è ampiamente trattato anche in Id. (ed.), Il porto romano sul Biferno tra Storia e Archeologia, Campobasso 2008, passim]. [15] Ancora al tempo dei Normanni la città faceva parte della Capitanata. Sotto Giuseppe Bonaparte, re di Napoli (1806-1808), Larino venne elevata a sede di uno dei Distretti o Circondari (Mandamenti) della provincia di Foggia, retta da un Sottintendente, avente giurisdizione sui comuni di Larino, San Paolo di Civitate, Termoli, Guglionesi, Serracapriola, Bonefro, Sant’Elia a Pianisi e Colletorto; in seguito la sede fu trasferita a Serracapriola, perché più centrale. La città frentana rimase compresa nella Capitanata ancora per qualche anno, allorquando, durante il regno di Gioacchino Murat (1808-1815), il Distretto di Larino – poi Circondario – venne compreso, con Regio Decreto 4 maggio 1811, nella nuova “Provincia di Campobasso” o “Contado di Molise” di recente istituzione, comprendente i Circondari – poi Mandamenti – di Larino, Casacalenda, Civitacampomarano, Guglionesi, Montefalcone del Sannio, Palata, Santa Croce di Magliano e Termoli, comprensivi di 34 Comuni [G. e A. Magliano, Larino. Considerazioni storiche sulla Città di Larino, Campobasso 1895, rist. anast. Larino 2003, pp. 281-282 e n. (b); A. Magliano, Brevi Cenni storici sulla Città di Larino, Larino 1925, rist. anast. Larino 1986, pp. 70-71; G. Masciotta, Il Molise dalle origini ai nostri giorni. Il Circondario di Larino, IV, Cava dei Tirreni 1952, rist. Campobasso 1985, pp. 154-155; U. Pietrantonio, Considerazioni e Osservazioni su alcune Opere di Storia del Molise recenti e passate, Campobasso 1992, p. 21]. [17] Giudizio dell’agiografo Gennaro Luongo, docente di Letteratura cristiana antica presso l’Università di Napoli Federico II, espresso durante il Convegno di studi tenutosi a Larino (7-8 settembre 2004), in G. Mammarella, Da vicino e da lontano, II, Campobasso 2009, p. 134. Il prof. Luongo indica, nell’elenco presentato nel sito dell’Università, la seguente pubblicazione: “I Martiri Larinesi, in Convegno di studi, Larino 7-8 settembre 2004, in corso di stampa”. Tuttavia, da me interpellato circa la reperibilità di questo suo studio, ha così risposto: «Gentile signore, la relazione sui Martiri larinesi sta nel cassetto e quando avrò tempo conto di pubblicarla. In realtà quel convegno non ebbe alcun seguito, che avrebbe sollecitato da parte mia la pubblicazione. Spero di riprenderla quanto prima. Gennaro Luongo» (mail del 20/06/2013). Attendiamo con ansia che qualche benemerito “incaricato d’affari” della Chiesa di Termoli-Larino – ovvero della Comunità pastorale di Larino – si interessi della pubblicazione degli Atti. [19] Rigorosamente parlando, in Roma abbiamo i soli seguenti casi: il ritorno dei corpi di papa Ponziano (230-235) e dell’antagonista Ippolito dalla Sardegna (236 ca.), dove avevano scontato la pena ad metalla, deposti l’uno nella “Cripta dei Papi” del cimitero di S. Callisto sulla Via Appia, l’altro nel cimitero sulla Via Tiburtina che da lui prese nome; la traslazione, nello stesso cimitero (Lib. Pont., I, p. 149), delle spoglie mortali di papa Cornelio (251-253), da Centumcellæ [od. Civitavecchia, Roma], dov’era andato in esilio, su disposizione dell’imperatore Treboniano Gallo (251-253), per morirvi in quel giugno (Cypr., Epist. 61,3.1 : CSEL III/2, p. 696); la traslazione parziale delle reliquie degli apostoli Pietro e Paolo – probabilmente solo la testa di Pietro e qualche altro frammento (P. Testini, Archeologia Cristiana cit., pp. 228-229) –, nel 258 trasferite ad catacumbas – in un cimitero che non apparteneva alla comunità (poi Basilica Apostolorum in catacumbas) – a motivo della persecuzione di Valeriano (257-260); il furto delle reliquie di Silano da parte dei Novaziani, avvenuto prima dell’anno 336, recuperate quasi certamente dal papa Innocenzo I (402-417) e risistemate dal successore Bonifacio I (418-422) nel cimitero della sorella Felicita sulla Via Salaria nova (Lib. Pont., I, p. 227); il trasferimento a Roma dei Quattro Coronati – i militi Clemente, Semproniano, Claudio e Nicòstrato – dalla Pannonia (prima del 354), deposti sulla Via Labicana (poi Casilina) nel cimitero ad duas lauros, dedicato ai SS Marcellino e Pietro, e solo in seguito traslati nel Titolo del Celio che da loro prese nome (G.B. De Rossi, op. cit., III, p. 561); il ritorno a Roma del corpo di Quirino, vescovo di Siscia [od. Sziszek, Ungheria], tra la fine del IV e l’inizio del V sec., deposto in un mausoleo dietro l’abside della basilica Apostolorum, nel cimitero ad catacumbas sulla Via Appia (B.SS., X, col. 1333; G.B. De Rossi, op. cit., II, Roma 1867, pp. 120-121). Tutti avvenimenti giustificati dalla eccezionalità della situazione politica o da un fatto accidentale, quale poteva essere un furto, ovvero dalla considerazione che i corpi dei martiri pannonici e degli esiliati da Roma non erano ancora perpetuæ sepoltura tradita. Va da sé che l’esempio di Roma fece scuola in tutto l’Occidente, e possiamo solo enumerare le invenzioni fatte da S. Ambrogio dei SS Gervasio e Protasio a Milano (386) [Ambr., Epist. 77; Paul. Mediol., Vita S. Ambrosii 14,2; vd. anche H. Delehaye, Les origines du culte des martyrs, Bruxelles 19332, pp. 75-78], delle reliquie dei SS Vitale e Agricola a Bologna (393) [Paul. Mediol., Vita S. Ambrosii 39] e la traslazione di quelle dei SS Nazaro e Celso, due anni dopo (ibid., 33). Le prime traslazioni note furono operate in Oriente, dove il mos græcorum era più lassista in materia: nel 351, quella del corpo di S. Babila, vescovo di Antiochia, per volere del cesare Flavio Gallo (351-354), dal cimitero cristiano all’esterno delle mura cittadine in un santuario del malfamato sobborgo di Dafne, dove aveva sede un famoso oracolo di Apollo, con l’intento di stroncarne il culto [Soz., Hist. eccl. V,19; Greg. Naz., Contra Iul. I,25 : PG XXXV, col. 552]; delle reliquie dei SS Timoteo, Andrea e Lino nell’Apostoleion di Costantinopoli per ordine dell’imperatore Costanzo II (356-357) [J. Sumption, Monaci cit., p. 35]; l’invenzione del corpo di S. Stefano a Caphar-gamala, presso Gerusalemme, nel 415, le cui reliquie furono condotte in Occidente dal presbitero Orosio e disperse – vista l’eccezionalità del personaggio (il protomartire) – fra diverse comunità d’Oriente e d’Occidente (Gennad., Vir. inl. 40; vd. anche H. Delehaye, Les origines cit., pp. 80-81; J. Sumption, op. cit., pp. 33-34). In Oriente, questa pratica impose l’emanazione di una specifica legislazione (Cod. Theod. IX,17,7), tesa a proibire, talvolta senza successo, la traslazione delle reliquie (per un quadro sintetico sull’argomento vd. P. Testini, Archeologia Cristiana cit., pp. 132-135, 610). |
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M.T., Trivento (lunedì, 10 agosto 2015 21:02)
Leggendo questo suo saggio, così ben documentato, mi viene da pensare che probabilmente il nostro caro mons. Vincenzo Ferrara ha calcato la mano, lì dove non era il caso, ed ha creato un'agiografia "prêt-à-porter" ad uso e consumo di noi Triventini. Leggo infatti anche di questo giudizio così severo, sul di lui lavoro, espresso dal prof. Gennaro Luongo di Napoli e dallo storico Iasiello: me ne dispiaccio. Però se il San Casto che veneriamo qui in paese non c'entra niente con il Santo larinese, mi chiedo da dove provengano le sue reliquie. Auspico che qualche studioso delle nostre parti, armato di buona volontà e di più oneste vedute, sappia trovare una degna soluzione alla questione.
Antonio Scarano- Trivento (giovedì, 26 marzo 2020)
Ho letto il Suo saggio e vorrei fare una piccola critica, mi consenta "costruttiva" senza nulla togliere al lavoro svolto. Mi sembra un poco "campanilistico" senza tener conto delle effettive realtà archeologiche della "Terventum" pre-romama e romana.Ovunque ci sono reperti ; la cripta stessa presenta una parete ad "opus reticolatum" che già qui ne sposta la datazione in epoca romana e non medioevale, le colonne sono state " reimpiegate" e rimaneggiate, ma senz'altro non sono certo di epoca medioevale, il ritrovamento sotto la pavimentazione della cattedrale ( a circa 6 mt. e in piano con il pavimento della cripta) di un battistero Paleocristiano(ne esistono pochissimi al mondo di cui uno nella cattedrale di Frejus in Francia)ne spostano la datazione non certo al medioevo, da qui la sicurezza che Trivento ha avuto nei primi secoli della cristianità un ruolo importante.La cripta all'inizio non era altro che un classico tempio a cielo aperto dedicato a Diana, sul cui stesso livello è stato costruito in epoca coeva, il battistero. Successivamente con l'espansione sempre più forte del cristianesimo e la necessità di avereun luogo di culto cristiano, è stato adibito a cripta. Nei nostri paesi si aveva l'usanza anticamente di costruire le nuove strutture ed abitazioni su quelle preesistenti, da qui la Cripta. Certamente è stata nel corso dei secoli rimaneggiata più volte, ma da qui ad asserire che sia stata costruita in epoca medioevale mi sembra un pò azzardato.Certo Trivento manca di un anfiteatro, di templi, di terme, ma sono certo che se si potessero effettuare degli scavi con cognizione si troverebbero anche quelli; ci sono zone in pieno centro che si prestano all'ipotesi di una costruzione di un anfiteatro, di terme, ecc... Sono state anche rinvenute delle cisterne di epoca romana di notevole dimensioni in abitazioni nel centro storico, sempre in centro storico è stato rivenuto un tempio romano dedicato alla dea Fortuna ( sempre al di sotto della chiesetta di Santa Chiara).
Comunque complimenti per la Sua ricerca accuratissima, che pone le basi e gli spunti per approfonditi studi sulla nostra regione in epoca più antica.
Con stima, Antonio
pinomiscione (giovedì, 26 marzo 2020 19:47)
Gentile Antonio, la ringrazio dell’apprezzamento ed anche della critica, che cioè il mio scritto sia venato da “campanilismo”. Tuttavia, è un giudizio che tenderei ad escludere, visto che in altre pagine del mio sito, in altre ricostruzioni inerenti la storia cristiana di Larino, ho addirittura rifiutato, ad esempio, che la traslazione dei resti mortali di San Pardo da Lucera a questa mia città (ebbene sì: era una città, ora in decadenza) sia stata effettuata, com’è ritenuto da antica tradizione, da un carro a trazione bovina. Altre letture innovative, e nient’affatto “campanilistiche” sono presentate altrove, laddove tratto della vita e del martirio dei Santi Martiri Larinesi Primiano, Firmiano e Casto.
Il mio scritto su questo ultimo martire, che tocca la sua Trivento, mira a confutare quello che è stato messo nero su bianco da mons. Vincenzo Ferrara. Vedrà che le sue perentorie affermazioni nel mio saggio vengono contraddette una per una: dalla “IV Provincia originaria: il Sannio pentro-frentano”, ch non è mai esistita, all’assurdità delle plurime traslazioni del martire Casto, avvenute «silenziosamente e senza scalpore di fatuo ed esteriore trionfalismo», che contraddicono tutto quello che di universalmente accertato si sa del culto dei martiri nei primi secoli, al dies natalis mutato, quando nella Chiesa antica cioè era praticamente impossibile, e via discorrendo.
Ora lei mi parla di questo battistero e della cripta: “da qui ad asserire che sia stata costruita in epoca medioevale mi sembra un po’ azzardato”. Ma io mi sono limitato a citare puntigliosamente le fonti, vale a dire gli studi specialistici degli archeologi che hanno scavato e gli studiosi che ne hanno trattato. Nessuna invenzione da parte mia. Che Trivento possa aver avuto un anfiteatro, è affermazione che non mi sento di condividere, non fosse altro perché tali edifici pubblici erano presenti nei grandi agglomerati urbani. In Molise ne abbiamo un paio. Non vorrei essere ancora apparire un “campanilista”, ma il rapporto di superficie edificata tra Larinum e Terventum era di 90 ettari contro 10 (fonti archeologiche concordi indicate nel mio saggio). Se si dovesse ammettere la sua tesi, ebbene sarebbero da scavare in Italia ancora migliaia di anfiteatri romani.
Qui nessuno vuole escludere che Terventum sia stato antico centro dei Sanniti pentri e che in epoca romana abbia rivestito il ruolo di municipio. Però le esagerazioni di mons. Ferrara, che ce la dipingono come una importantissima città dell’Italia centro-meridionali, dove il Cristianesimo vi è stato portato nei primi secoli, sono smentite dai fatti.
In conclusione, non posso che ribadire che la pretesa di fare del martire Casto il primo evangelizzatore di codesto territorio e addirittura il suo primo vescovo non appare avere alcun solido fondamento. Nel saggio sono ribadite meticolosamente tutte le fonti e i pareri tecnici che giungono a questa conclusione. Non era mia intenzione irritare la suscettibilità di alcuno, ma mi premeva puntualizzare ciò che nel mio scritto viene affermato. La saluto cordialmente.