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uale sia l’idea che si ha dei “palii” di San Primiano, lo si desume dalla recente Guida della città di Larino, che li presenta come «lunghe aste di legno sulla cui sommità sono posti drappi multicolori e multiformi, per indicare il trionfo della fede ottenuto con il sacrificio della vita» |
(Città di Larino, p. 61; vd. anche G. Mammarella, I Santi Martiri Larinesi, p. 23).
Non condivisibile credo sia l’idea dello Stelluti (Larino. Carri & Carrieri di San Pardo 1990/91, p. 13), il quale definisce il “palio” di San Primiano come «palma, panno, drappo, manto o premio che viene dato a chi vince una gara specialmente equestre (come a Siena) nel nostro caso dei carri trainati dai buoi». Questa definizione non ha infatti alcuna relazione con «lu Salvatore cu lu pallio mmano», di cui parla la cosiddetta Carrese di S. Pardo (I,20), il quale credo non avesse in animo di partecipare ad alcuna gara a premi, del tipo menzionato, e nemmeno credo lo brandisse a coronamento di una vittoria sportiva.
Si può dire che, pur accettando in via preliminare la spiegazione fornita dalla Guida cittadina, essa non appare affatto esaustiva a comprendere il motivo per cui ogni fedele sentisse il bisogno di portare in processione un’asta con un drappo colorato. Se realmente si fosse trattato di un mero simbolo – ma nella Chiesa dei primi secoli tutto era ben più concreto –, sarebbe bastato che all’inizio del corteo processionale ci fosse stato un solo vessillifero incaricato di issarlo sopra l’asta.
Mi sembra chiaro, invece, che ogni fedele avvertisse il bisogno di tenere ben stretto in mano il suo proprio “simbolo”, avente un significato salvifico ben preciso, ed anzi l’asta che lo reggeva in origine altro non era che un bastone crociato da pellegrino, visto che l’uso di recarsi in pellegrinaggio sulle tombe dei martiri era diffuso pressoché ovunque, a cominciare da Roma, e il bastone crociato era di utilizzo assai frequente (G. Tancredi, Folklore Garganico, pp. 29-30; C. Angelillis, Il Santuario del Gargano e il culto di S. Michele nel mondo, I, p. 21; II, pp. 166-167).
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Pellegrinaggio a piedi al Santuario dell'Addolorata di Castelpetroso (IS), proveniente da Pietramelara (CE); vediamo i
numerosi pellegrini incedere appoggiati ai loro bastoni crociati, ai quali è agganciato un "signum" della loro meta spirituale (maggio 2016) |
Venendo a quella che io ritengo sia la vera origine del “palio”, vediamo come sin dal principio nel Cristianesimo si sia avvertita l’esigenza di “creare” delle reliquie. Del resto le Sacre Scritture ci riportano diversi casi di miracoli operati da Dio per mezzo di spoglie umane od oggetti inanimati, come ad es. il bastone di Mosé (Es 4,21), il serpente di bronzo (Num 21,8s), le ossa di Eliseo (2Re 13,21), la stessa veste di Cristo (Mt 9,20), l’ombra di Pietro (At 5,12-16), pezzi di stoffa appartenenti a Paolo (At 19,12).
Ci è inoltre noto che durante la persecuzione di Valeriano del 258, dinanzi a Cipriano, vescovo di Cartagine, sul punto di essere decapitato, i fratelli di fede gettavano linteamina… et manualia (salviette di lino e asciugamani), col proposito di farle impregnare del suo sangue (Acta Cypriani 4,2; vd. R. Grégoire, Manuale di agiologia, p. 323).
Lo stesso sangue del martire veniva, ove possibile, raccolto:
Plerique vestem linteam Stillante lingunt sanguinem Tutamen ut sacrum suis
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Ancora, dopo la morte di Vincenzo di Saragozza, che patì molte torture e rese l’anima a Dio in epoca coeva ai Santi Martiri Larinesi, gli astanti fecero a gara a baciarne i resti, a toccarne le ferite, a intingere nel suo sangue fazzoletti da lasciare come eredità ai posteri (R. Grégoire, op. cit., p. 323). Analogamente, a Samosata [od. Samsat, Turchia] nel 308, alcune donne corruppero le guardie per poter lavare con le spugne i corpi dei sette fratelli martiri, così da raccogliere anche gocce del loro sangue (Prud., Peristeph. V,41-45 : PL LX, col. 381; cfr. anche Monumenta Ecclesia Liturgica, I/2, p. 192, nn. 4399-4401).
Consideriamo poi come sia ben documentata l’usanza di mettere a contatto[2] delle tombe martiriali, attraverso la cosiddetta fenestella confessionis, oggetti vari, specialmente piccoli panni di lino – brandea – ovvero pezzi di stoffa più grandi – palliola, cioè drappi – derivante dalla consuetudine di santificare i liquidi tramite il contatto con esse (P. Testini, Archeologia Cristiana, pp. 132-133, 146-147, 483).
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San Gregorio Magno ce ne riporta diversi esempi (Dialog. II,38 : PL LXVI, col. 204). Quando Giustiniano richiese a papa Ormisda (519) alcune reliquie di San Lorenzo, si fece preghiera di deporre gli oggetti ad secundam cataractam (Hormisdæ papæ epist. et decr. : PL LXIII, col. 474). Sulla loro reale efficacia, ancora papa Gregorio racconta che, dubitando alcuni Greci del loro valore, papa Leone Magno praticò un taglio con le forbici et ex ipsa incisione sanguis effluxerit (Reg. Epist. IV,30 : PL LXXVII, col. 702).
Le reliquiæ ex contactu assumevano altri nomi ancora: sanctuaria, nomina, pignora, memoriæ, λείψανα, eulogiæ. Quest’ultimo termine deriva propriamente dall’uso che si fece di ampolline, fiale, vasi, piatti, che costituivano il corredo delle tombe cristiane, adoperati per raccogliere, dai sepolcri dei martiri, gli oli aromatici santificati, così da poterli conservare come “benedizione” – ευ̉λογία appunto – al posto delle vere reliquie.
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L’operazione trovò una ancor più pratica agevolazione nell’articolazione delle chiese cimiteriali a partire dal VI secolo, quando si cominciò a costruire cripte semianulari intorno agli altari (P. Testini, op. cit., p. 600), costituite da un corridoio ricavato lungo la curva dell’abside, dal cui centro ne partiva uno retto, che consentiva di accedere alle reliquie del santo, sia per rendergli il dovuto culto sia per accostarvi gli oggetti da santificare.
La cripta così strutturata veniva poi collegata al presbiterio mediante rampe, che risalivano al livello della chiesa all’altezza dell’arco absidale. La celletta col deposito aveva quasi sempre aperture che davano sul corridoio anulare e sul presbiterio, protette da grate di ferro o transenne di marmo; talvolta venivano praticati dei fori in alto – cataractæ, umbilici – che permettevano di vedere il deposito con le reliquie nonché avvicinarvi gli oggetti da santificare (In Roma abbiamo gli esempi illustri di San Pietro in Vaticano e San Paolo f.l.m.).
Una descrizione piuttosto accurata di cripta semianulare ci è stata lasciata da Gregorio di Tours a proposito delle basiliche di San Pietro in Vaticano e San Giovanni di Lione (In gloria mart. 28 e 50 : PL LXXI, coll. 728-729, 752), benché si ritenga generalmente che il viaggio a Roma di Gregorio sia leggendario (cfr. BSS, VII, col. 220). Della cripta romana, ricavata nel presbiterio verso la fine del VI secolo, ricordiamo che costituì il primo esempio di questa felice soluzione architettonica e diede nuovo impulso al culto martiriale, facendo scuola sia in Occidente che in Oriente. La cripta costruita da Onorio I (625-638) nella chiesa romana di San Pancrazio seguì a breve (cfr. P. Testini, op. cit., pp. 184-185, 600-601).
Le stoffe e gli altri oggetti sottoposti a questo rito sacro arrivavano perciò ad assumere il significato di vere e proprie reliquiæ ex contactu, e conservarono per lungo tempo i sepolcri dei martiri da manomissioni e spoliazioni, specialmente nella parte occidentale dell’Impero, dove più si sentiva l’influenza della tradizionale riluttanza papale a violare in qualsivoglia maniera i sepolcri dei martiri romani.
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L’attuale denominazione di “palio”, per quanto riguarda il drappo che fa memoria del culto tributato ai nostri Martiri, è chiaramente una corruzione del termine originario, facilmente documentabile confrontando le diverse versioni della cosiddetta Carrese di San Pardo: mentre quello più noto – riportato nei pieghevoli distribuiti durante la festa del Patrono (ahimé fino a qualche anno fa) – accetta l’alterazione, un altro differenzia la grafia: «E Santo Salvatore co lu palio in mano» (I,15); nella stessa lezione leggiamo infatti anche «Coll’Angeli Santi lu pallio mmano» (I,21) [in N. Stelluti, op. cit., p. 34].
L’usanza di far procedere in processione fanciulli e ragazzi, e non più adulti, si può agevolmente spiegare con la fine dei pellegrinaggi a piedi fino alle tombe dei Martiri, causata anche e soprattutto dal trafugamento dei loro Corpi.
Peraltro, che il rito del “palio” non avesse in origine alcuna relazione con le processioni di ragazzi credo lo attesti un assai significativo verso della Carrese: «lu Salvatore cu lu pallio mmano» (I,20); difatti esso sottintende che il pellegrino maturo e consapevole vedeva il Cristo raffigurato col simbolo del suo andare verso la meta. |
È verosimile ritenere che in epoca altomedievale – quando le consuetudini lo permettevano, ma comunque prima del trafugamento dell’842 – sia invalso l’uso della solenne processione delle reliquie dei Martiri Larinesi – o parte di esse – per le strade del centro urbano nel giorno della loro festa, cui certamente avranno preso parte le grandi folle di pellegrini, coi loro bordoni crociati rivestiti del pallio.
Da ricordare, a proposito, quel che dice San Gregorio di Tours relativamente alle traslazioni notturne delle reliquie di altri santi minori, in occasione della grande vigilia di San Martino (De gloria confess. 39 : PL LXXI, col. 858). Nel giorno di festa vero e proprio si era poi soliti svolgere processioni per visitare i diversi santuari e le diverse memorie martiniane, tra le quali la vicina abbazia di Marmoutier [Indre-et-Loire, Francia] (De mirac. s. Martini 2,39 : PL LXXI, coll. 958-959), fondata nel 372 dal santo Vescovo, da dove era abitudine portar via dell’acqua dal pozzo da lui scavato (E. Delaruelle, loc. cit., p. 223-224). |
La processione intra urbem di fanciulli con drappi colorati al seguito del simulacro ligneo del Santo più venerato starebbe perciò a rappresentare ciò che di residuo è rimasto di tutto il sacro rito. Diversamente, si può anche ipotizzare che il culto ai Santi Martiri Larinesi abbia assunto fin dall’inizio o nel corso delle generazioni, una particolare attrazione e una ben delineata valenza, magari per miracoli e fatti prodigiosi che non conosciamo, legate alla guarigione fisica e spirituale di persone di giovane età. |
Il pallio ha una significativa rilevanza anche nella storia delle origini del Santuario garganico di San Michele. Venendo infatti all’episodio della Dedicazione della Basilica garganica (29 settembre 493), quando i vescovi apuli giunsero alla mistica caverna, vi trovarono già eretto un rozzo altare coperto da un drappo vermiglio, un palliolum appunto; vi rinvennero altresì impresse nella roccia le “impronte” di San Michele; tutti contrassegni della già avvenuta consacrazione:
At veniunt mane cum oblationibus et magna instantia precum, intrant regiam australem, et ecce longa porticus in aquilonem porrecta atque illam attingens ianuam extra quam vestigia marmori diximus inpressa; sed priusquam huc pervenias, apparet ad orientem basylica grandis, qua per gradus ascenditur. Hæc cum ipso porticu suo quingentos fere homines capere videbatur, altare venerandum rubroque contectum palliolo prope medium parietis meridiani ostendens.[6]
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A un pellegrinaggio ordinato ad alcuni fratres da Oberto [Aubert], vescovo di Avranches, alla ricerca di un palliolum e di altri pignora – ovvero oggetti-reliquie – da prelevare nel Santuario garganico, si deve anche la nascita del culto micaelico in un altro famosissimo luogo sacro, quello di Mont-Saint-Michel in Normandia [dép. Manche] (708), altrimenti detto au péril de la mer, a motivo del fenomeno delle maree che rendono pericoloso il sito.
Le vicende che portarono alla fondazione del santuario normanno sono narrate in un’operetta della seconda metà del IX secolo, l’Apparitio sancti Michaelis in monte Tumba:
Quod cum post non multum tempus esset, opem ferente Deo, ædificatum, viro Dei Autberto episcopo manente anxio, proinde quia cernebat sibi deesse sancti archangeli pignora; beatus eumdem sacerdotem Michael admonuit, uti fratres celerrime usque ad locum, quo memoria venerabiliter colitur sanctissimi archangeli, dirigeret in Gargano, et eam, quam angelo patrocinante referrent benedictionem, cum summa exciperet gratulatione. Interea missi nuntii adeunt locum: qui benignissime ab abbate loci illius suscepti vestibusque mutati, ac tanti itineris fatigatione sublevati, cuncta quæ suæ contigerant regioni, simulque ad quod venerant, pandunt. Quæ verba cum ipsius loci abbas suo retulisset antistiti, uberrimas omnipotenti Deo laudes uterque retulit, qui pro lapsis naturæ fragilitate terrigenis adsistentium sibi ministrorum dignatur præbere suffragium. Hinc cum qua decebat veneratione sumtis a loco pignoribus, quo beatus archangelus sui memoriam fidelibus commendaverat, partem scilicet rubei pallioli, quod ipse memoratus archangelus in monte Gargano supra altare, quod ipse manu sua construxerat, posuit, et partem scilicet marmoris, supra quod stetis, cuius ibidem usque nunc in eodem loco superextant vestigia, iam dictis fratribus usque ad sacrum locum referenda patrocinia contradidit. [12]
Il motivo ricorre peraltro anche in altri racconti agiografici, specie d’Oltralpe:
ancora, agli inzi dell’VIII secolo è registrato il viaggio del principe Wolfando, che dalla Francia si recò sul Gargano per prelevarvi alcuni pignora, poi deposti e custoditi nel monastero di San Michele di Verdun (Chronicon in pago Virdunensi 2, 1857, pp. 79-80). Nel Chronicon Centulense, redatto nell’XI secolo da Ariulfo, si narra che Gervino, abate del monastero di San Ricario in Francia, collocò nella cripta da lui voluta diverse reliquie di santi tra le quali anche pignora… de pallio sancti Michaelis archangeli (Chronicon Centulense 18 : PL CLXXIV, col. 1330). Stessa cosa nel monastero catalano di San Michele de Cuxa, sui Pirenei orientali, dove nel X secolo furono poste alcune reliquie del santo Arcangelo, tra le quali compare il pallium di tradizione garganica: reliquiæ ipsius gloriosi arcangeli Michaelis, ex pallio scilicet eius sanctæ memoriæ (Garcia monachus Cuxasensis, Epistola ad Olivam episcopum Ausonensem : PL CXLI, col. 1447) [per questi ed altri episodi si veda I. Aulisa, Pellegrini al Monte Gargano. Le testimonianze letterarie, pp. 46-48].
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A sostegno del significato qui proposto circa il “palio” larinese, osserviamo che nella cosiddetta “Cava delle pietre” della Grotta micaelica del Gargano si può vedere un rilievo rupestre in parte mutilo, probabilmente «una formella votiva … un ex voto» (L. Lofoco, La Capitanata e la tradizione compostellana nel Medioevo, p. 129). Dipinto in origine a colori vivaci, datato più verosimilmente al XIV secolo, raffigura un Santo che si accompagna nel suo viaggio con un bastone crociato, al quale tiene legata, mediante una cordicella, una borsa da pellegrino sulla cui ribalta è scolpita in leggero rilievo una piccola conchiglia.
È stato variamente identificato con San Giacomo Maggiore ovvero con un non meglio specificato Santo pellegrino che, per la originaria colorazione rossa del mantello, si qualifica come martire [C. Angelillis, op. cit., I, pp. 200-202; R. Mavelli, Madonna col bambino incoronata dagli angeli, pp. 154, 156; J. Bogacki (ed.), Guida al Santuario di San Michele sul Gargano, p. 33].
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Per completezza d’informazione, vediamo come per pallio, ai giorni nostri, s’intenda qualcosa che ha un valore di portata universale. Ci si riferisce a quello indossato dal Papa e da altri particolari vescovi.
Pure si osserva che non pochi autori fanno giustamente derivare il sacro pallio da antiche consuetudini dei primi martiri e vescovi: in principio, difatti, la sua funzione doveva rifarsi a quanto avveniva per i malati, i vecchi e a quanti premeva di conservare la voce, i quali solevano avvolgersi intorno al collo un ampio fazzoletto, per lo più di lana (focale, maforte o palliolum appunto).
Uno dei principali uffici dei vescovi era quello del doctrinaæ ministerium, la cura divini verbi (passio S. Vincentii 1.4, in Th. Ruinart, Acta primorum martyrum sincera et selecta, pp. 390, 391), nonché quello di prendere la parola in svariate circostanze; da qui la necessità di salvaguardare le corde vocali indossando il focale e al contempo mostrarsi con l’abito degli anziani e degli oratori, avendo indosso la penula, usata sin dal tempo di Tacito (De orat. 39) e consentita agli anziani da Alessandro Severo (222-235) [Æl. Lamprid., Alex. Sev. XVIII 27,4: pænulis intra urbem … ut senes uterentur permisit] (P. Franchi de’ Cavalieri, Intorno al testo della vita e degli atti di S. Cipriano, p. 131, n. 5).
Similmente, nel corso del V secolo, ecco che abbiamo il passaggio dal fazzoletto da collo (μαφόριον) all’insegna episcopale vera e propria (ω̉μοφόριον).
Si trattò di un lento passaggio: in una cronaca alessandrina del V secolo, vediamo i vescovi con indosso l’insegna episcopale (ω̉μοφόριον), che tuttavia si presenta ancora come semplice fazzoletto (μαφόριον) [J. Wilpert, Beiträge zur christliche Archäologie, pp. 14-15]. Per contro, il più antico testo del martirio di San Pietro d’Alessandria, anch’esso ascrivibile al V secolo, ci mostra il martire che va incontro alla morte con indosso l’ω̉μοφόριον (pallio sacro), detto in seguito μαφόριον (fazzoletto); ed egli lo porta più al modo di fazzoletto vero e proprio che di insegna, dovendo liberarsene per denudare il collo, al fine di ricevere il colpo di gladio:
ε̉χαύνωσεν ε̉αυτου̃ ω̉μοφόριον, καὶ γυμώσας ε̉αυτου̃ τὸν τίμιον τράχηλον, κλίνας τὸν αυ̉χένα κτέ. [14] σχήμα γὰρ ε̉φόρει ίεροπρεπὲς πάντοτε, λευκὰ ίμάτια· στιχάριν καὶ μαφόριν [15]
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