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ell’antico sito urbano della Larinum frentana e romana, era destinata a necropoli la zona adiacente all’attuale stazione ferroviaria, nei pressi della quale passava la direttrice che conduceva a Sicalenum [od. Casacalenda] e a Bovianum [od. Boiano] – che Procopio di Cesarea (De bello Goth. VI,5,2) denominerà ο̉δός Σαμνίου – utilizzata per seppellire i morti anche in età imperiale (seconda metà del II-inizi del III secolo d.C.). |
Altre aree di inumazione erano presenti nel luogo ove sorgerà l’abitato medievale, che una strada collegava col Piano della Torre; in località Fonte Novelli e Monte Arcano, nei pressi della strada che portava oltre il fiume Biferno, verso Uscosium [presso od. San Giacomo degli Schiavoni]. Altre aree di sepoltura erano situate ancora nei pressi della Vigna del Duca e in località Monte Altino, in prossimità degli assi viari che portavano a Buca [presso od. Termoli], e nella parte a sud-est della città, nelle adiacenze della Masseria dei Pazzi, dove passava la strada che conduceva a Luceria (A. Di Niro, Necropoli arcaiche di Termoli e Larino, pp. 63-99; Ead., Le necropoli della zona costiera, in Samnium, pp. 65-71; Ead., Larinum, in ibid., p. 267; E. De Felice, Larinum, p. 43).
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In verità, riguardo all’antica città romana non si ha notizia del rinvenimento di tombe cristiane e men che meno ci è pervenuto alcun reperto relativo ad iscrizioni dei primi seguaci del nuovo credo. Tuttavia l’agiotoponimo “San Primiano”, sopravvissuto fino ai giorni nostri, ci fa ritenere che in quest’area poteva sussistere, sin dai primi secoli, un antico cimitero cristiano, sorto accanto alle venerate sepolture dei Santi Martiri Larinesi.
Difatti, per un cristiano dei primi secoli riposare accanto alla tomba di un martire, specialmente se concittadino, era il massimo traguardo; come se il Cristo fosse morto in casa propria, un Golgotha casalingo e poi il Sepolcro da venerare in vita, con quei resti mortali considerati al pari di “frammenti di eternità”; e a questa partecipare appena si superava il varco che immetteva alla vera vita immortale.
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Le antiche necropoli cristiane, piccole e grandi, erano situate al di fuori del recinto urbano, quasi sempre lungo una strada di grande traffico, giacché la Legge delle XII tavole aveva proibito di seppellire i morti all’interno delle mura cittadine: «hominem mortuum in urbe neve sepelito neve urito» [all’interno della città non si seppelliscono né si cremano i morti] (lex duodecim tabularum [451-450 a.C.]; Tab. X,1, in C.G. Burns, Fontes iuris Romani Antiqui, Tübingen 19096, p. 35).
Erano fatte eccezioni per le vergini vestali, gli infanti e, in caso specialissimo, il seppellimento in urbe si accordava a titolo d’onore dal Senato (ad es. Valerio Publicola). Riscontriamo tuttavia alcuni casi particolari, dove la norma non venne osservata: a Roma le memorie dei Santi Giovanni e Paolo sul Celio, probabilmente deposti nella loro casa, dove pure furono uccisi («[Terentianus] fecit fieri foveam intra domum ipsorum et tunc decollari eos iussit») [AA.SS. Iun. VII, pp. 140-141], sulla quale venne edificata una chiesa, tuttora esistente: «Intra urbem in monte Cælio sunt martyres Iohannes et Paulus in sua domus, quæ est facta ecclesia post eorum martirium» dice l’Itinerarium Malmesburiense (Cod. Top., II, p. 72) [per un excursus vd. A. Amore, I Martiri di Roma, pp. 287-297].
Fuori dall’Urbe abbiamo le eccezioni di San Demetrio a Salonicco e dei Maccabei ad Antiochia (P. Testini, Archeologia Cristiana, p. 135, n. 2; H. Delehaye, Les origines du culte des martyrs, p. 46, n. 1).
Il termine “cimitero” è di derivazione greca. Appare per la prima volta a Roma nella prescrizione del papa Zefirino (198-217/218) al diacono e futuro papa Callisto circa il suo incarico di custode del cimitero che da lui prenderà il nome [«Ζεφυρι̃νος … αύτὸν (Κάλλιστον) … εὶς τὸ κοιμητήριον κατέστησεν»] (Hippol., Philosoph. IX,12,14 : PG XVI, col. 3383). Il più antico esempio del vocabolo ci è dato da Tertulliano (De anima 51). Il significato letterale della parola è “dormitorio”, un termine che esprime al meglio il concetto che i Cristiani avevano della morte: un temporaneo riposo in attesa della Resurrezione (Ioh. Chrys., Cœmet. 1 : PG XLIX, coll. 393-394).
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Sin dal II secolo i Cristiani potevano possedere cimiteri comunitari – dalle legge romana ritenuti loci religiosi e perciò tutelati da norme – che rappresentarono i nuclei costitutivi della proprietà ecclesiastica (ricordiamo a Cartagine le «areæ sepulturarum nostrarum» di cui parla Tertulliano intorno al 203 [Ad Scap. 3,1 : CSEL LXXVI, p. 11]). La normativa emanata in età severiana aveva del resto posto una base legale alla proprietà dei collegia religionis causa in tutto l’Impero (Dig. XLVII,22,1). Essi, con l’editto del 303, furono confiscati, rimanendo i cimiteri privati nel pieno possesso dei legittimi proprietari. Il caso anomalo della confisca del cimitero di Ciriaca, «in agro Verano» sulla Via Tiburtina – o di San Lorenzo –, rientra nella norma probabilmente perché donato antecedentemente alla Chiesa (Vita Sylvestri, ed. L. Duchesne, Lib. Pont. I, p. 182).
Le requisizioni, in ogni caso, furono sempre considerate transitorie, tanto che nel luglio 311, a seguito dell’editto di Sardica – ma questo è un punto controverso –, papa Milziade (311-314) poté riprendersi i cimiteri confiscati da Diocleziano (Eus., Hist. eccl. VIII,14,1). Con la pace del 313 si concessero definitivamente quei luoghi «ad ius corporis eorum id est ecclesiarum, non hominum singulorum, pertinentia» (Lact., De mort. persec. XLVIII,9 : CSEL XXVII, pp. 228 ss.; Eus., Hist. eccl. X,5 : PG XX, coll. 879 ss.) [sull’argomento O. Marucchi, Manuale di Archeologia Cristiana, p. 74; L. Hertling-E. Kirschbaum, Le catacombe romane e i loro martiri, pp. 19 ss.; P. Testini, op. cit., pp. 112 ss.].
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Non abbiamo cognizione, in mancanza di scavi scientifici, se a Larino l’area antistante la cosiddetta Porta Orientale sia stata area cimiteriale prima della persecuzione dioclezianea; potrebbe darsi che si trattasse di un terreno privato, che qualche Giuseppe di Arimatea locale mise a disposizione per tumulare i numerosi martiri del 304 – che io ritengo provenissero da Lucera –, presso i quali anch’egli e i membri della sua famiglia avrebbero forse voluto un giorno trovare riposo. Nelle passiones romane incontriamo spesso, a rivestire tale ruolo, il nome della matrona Lucina, che divenne un cliché di rigore.
Tra i numerosi casi riportati dalla letteratura, ricordiamo quello di Faltonia Hilaritas, una possidente di Velletri appartenente alla gens senatoria Faltonia, la quale aveva realizzato l’area «sua pecunia» e in essa, con ogni probabilità, era stata sepolta [faltoniae hilaritati | dominae filiae carissimae | quae hoc coemeterivm | a solo sva pecvnia fecit | et hvhic religioni donavit] (ILCV 3681A; cfr. V. Fiocchi Nicolai-F. Bisconti-D. Mazzoleni, Le catacombe cristiane di Roma, pp. 23, 67 e n. 66; per approfondimenti sull’argomento vd. U.M. Fasola-V. Fiocchi Nicolai, Le necropoli durante la formazione della città cristiana, pp. 1153-1205).
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I cimiteri sopra terra o subdiali (sub divo) si moltiplicarono intorno alle basiliche dei martiri nonché sopra le aree cimiteriali catacombali, fino a restare l’unica forma di inumazione comunemente praticata dopo l’abbandono di queste ultime, sopravvivendo fino ai nostri giorni. Il cimitero subdiale occupava solitamente un’area ben delimitata, recintata per circuitum, mediante un’operazione di misura denominata metare tumulum, ponere o figere tumulo metas, ragion per cui l’area così definita diveniva metata (G.B. De Rossi, La Roma sotterranea cristiana, III, pp. 399 ss.).
Si tratta di una pratica tipicamente pagana, tuttavia seguita anche dai Cristiani, i quali erano soliti delimitare il campo cimiteriale con opere murarie (maceria, muro cinctus), così come risulta accertato nel cimitero di Callisto sulla Via Appia. La denominazione che si dava al cimitero cristiano all’aperto era quella di area, in Africa dette areæ christianorum e in Oriente τόπος (ήρω̃ιον, μνημει̃ον, μνη̃μα, μνμόριον). Alcune volte troviamo il nome del proprietario del fondo per la distinzione delle aree: ad es., in Africa, abbiamo l’area Macrobii Candidiani, l’area Evelpi; in Umbria troviamo l’area Vindiciani. Quando l’area era coltivata a giardino si appellava anche hortus (κήπος) o agellus. In un’epigrafe di Salona leggiamo difatti in horto metrodori (CIL III,2207); a Milano si menziona l’hortvs philippi (BAC 1864, p. 29); in un altro titolo si dichiara espressamente che la tomba si trova nel giardino, in sarcophago in hortvlis nostris (G.B. De Rossi, op. cit., I, pp. 109 ss.; III, pp. 429 ss.).
L’area coltivata ad orto, posta intorno al monumento funerario, veniva anche denominata cepotaphium, termine che spesso si adoperava per indicare sia il giardino sia il sepolcro. Il proprietario del cenotafio veniva detto domniprædius (cioè prædii dominus) o anche domnifunda, domnædius, dominedius (ibid., III, p. 341).
I posti più ambiti in un’area cimiteriale erano quelli situati presso il recinto, visto che spesso esso era coperto da una tettoia (protectum, teglata); pure richiesti – sempre perché al coperto – erano i posti ubicati nei vestiboli delle celle e delle scale e quelli nei portici delle basiliche. I sepolcri cristiani, a somiglianza di quelli pagani, presentavano solitamente una morfologia ad arcosolio ovvero a baldacchino (tegurium, ciborium), quest’ultima in seguito ripresa nelle basiliche paleocristiane, a protezione dell’altare. Altri sepolcri erano recintati da cancelli o transenne (clatri), intramezzati da pilastrini, che quando erano sormontati da un’erma o dal busto del Buon Pastore si denominarono hermulæ (ibid., II, p. 235).
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Il loculo – locus (in greco τόπος) – era il tipo di sepolcro di gran lunga più diffuso nel periodo paleocristiano – soprattutto nelle catacombe –, costituito da una cavità rettangolare col lato lungo a vista, dentro il quale il cadavere veniva deposto, senza cassa, avvolto in un lenzuolo, quindi sigillato con malta – nella quale spesso troviamo incassati i più svariati oggetti, forse ad uso mnemonico – e coperto con tegole, mattoni o con sottili lastre di marmo, sopra i quali si graffiva o si incideva – talvolta anche più modestamente sull’intonaco fresco – l’eventuale iscrizione; davanti al loculo ardeva regolarmente una lucernetta fittile, posata su piccole mense marmoree o fittili anch’esse, in analogia coi nostri lumini, simboleggiante la vittoria della luce sulle tenebre e sui demòni ovvero la luce eterna che illuminerà la sede del Paradiso (L. Hertling-E. Kirschbaum, op. cit., pp. 25-26; V. Fiocchi Nicolai-F. Bisconti-D. Mazzoleni, op. cit., pp. 75 ss.; per approfondimenti sul tema vd. M. Raoss sub vocem Locus, in E. De Ruggiero, DizEp, IV, Roma 1964-1967, pp. 1460-1829).
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Le tombe potevano essere singole ovvero multiple, per sfuttare al massimo lo spazio disponibile; altre volte abbiamo tombe più lussuose e costose. Il cadavere veniva disposto orientato, cioè rivolto ad oriente; regola che ovviamente non troviamo nelle gallerie delle necropoli sotterranee né in mausolei o basiliche. Il sistema più economico di inumazione prevedeva lo scavo della fossa delle dimensioni opportune, quindi, avvenuta la deposizione, si colmava la cavità fino a pareggiarla col terreno circostante. Si ponevano poi al di sopra alcune lastre fittili appoggiate orizzontalmente ovvero a doppio spiovente o a capanna, con un embrice terminale (tomba c.d. “a cappuccina”); tombe più lussuose prevedevano l’uso di lastre di marmo o anche di pietra, terracotta, piombo ovvero si adoperavano veri e propri sarcofagi. Troviamo anche anfore fittili – intere o a pezzi, a seconda delle dimensioni del cadavere – adoperate per ricoprirlo.
Talvolta si scavavano veri e propri sepolcreti verticali a più posti – fino a dieci –, cominciando ad inumare i cadaveri dal basso, sicché il coperchio della tomba inferiore serviva da fondo a quella superiore, con l’inconveniente di sottrarre alla vista le sepolture poste più in basso, ragion per cui si cominciarono a scavare veri e propri pozzi con una piccola area antistante, riservata al culto. Il sepolcro sotto il pavimento veniva denominato forma (bisomus, trisomus, quadrisomus, a seconda del numero dei posti); una forma completa era denominata locus clusus, plenus.
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Altro sistema era quello di disporre le sepolture all’aperto secondo un ordine orizzontale, separate da piccoli muretti, sopra i quali si appoggiavano le lastre (locus biscadens, tercadens, ecc., anche qui a seconda del numero di posti). Sulle sepolture era infisso un cippo con l’iscrizione, mentre nelle tombe al riparo degli agenti atmosferici non era infrequente imbattersi in decorazioni musive; una cassa a forma di parallelepipedo (sarcofago di marmo, piombo, pietra o argilla), libero o ricavato nel muro cui era addossata, serviva ad inumare cadaveri di persone più abbienti. In alcuni casi di persone particolarmente facoltose, troviamo qualche manufatto assai più elaborato, denominato monumentum, detto anche memoria, cella, cubiculum, pantheum; mentre il termine mausoleum – in seguito adoperato per designare un generico edificio per sepolture – venne in un primo tempo adoperato per indicare costruzioni funerarie di grandiose proporzioni [per queste notizie sul cimietro sub divo vd. P. Testini, op. cit., pp. 81-91; per approfondimenti: Id., Le catacombe e gli antichi cimiteri cristiani in Roma, Bologna 1966; U.M. Fasola-P. Testini, I cimiteri cristiani, in Atti del IX Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana, Città del Vaticano 1978, pp. 102-139, 189-210].
Il termine mausoleum si diede in origine alla tomba di Mausolo, satrapo di Caria (377-353 a.C.), ad Alicarnasso, una delle “sette meraviglie” del mondo antico, eretta da Artemisia II per il marito e per se stessa, a partire dal 353 a.C.
Non era infrequente che, a partire dal IV secolo, i mausolei, a carattere privato, sorgessero in prossimità o si addossassero proprio a una chiesa martiriale, come accadde alla Basilica Apostolorum sulla Via Appia (poi di San Sebastiano), a quella di San Pietro in Vaticano – dove sorsero i mausolei degli Anici, di Sant’Andrea e di Santa Petronilla – o anche alla basilica di Sant’Agnese sulla Via Nomentana e a quella dei Santi Marcellino e Pietro sulla Via Labicana. Essi potevano essere destinati ad accogliere una sola tomba ovvero più sepolcri, disposti anche su più piani (monumentum cum hypogæo); la stanza superiore era riservata alle riunioni ovvero al martire (Greg. Naz., Anth. Pal. 8,118); quella inferiore (κατάγαιον), destinata alle sepolture dei proprietari o dei semplici fedeli. Avevano pianta quadrata, poligonale e circolare, con o senza abside (exedræ) sporgenti, dal cui numero derivavano diverse denominazioni: unicora (una sola abside), dicora (due), tricora (tre), tetracora (quattro), exacora (sei), ecc. Isolati oppure raccolti in gruppi, i mausolei si moltiplicarono dopo la pace della Chiesa, a motivo del desiderio dei fedeli di riposare accanto alla memoria di un martire.
Con l’abbandono delle catacombe, essi costituirono l’unico sistema di inumazione adoperato, finché le invasioni barbariche sconvolgeranno i cimiteri, specie all’aperto, tanto da obbligare il popolo a preferire la creazione di nuove piccole necropoli all’interno delle mura, ovvero in chiese, in edifici abbandonati, ecc. (P. Testini, Archeologia cristiana cit., pp. 90-91; vd. anche p. 601, n. 2).
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Anche nel caso del nostro Cimitero larinese, possiamo ritenere che generazioni di cristiani avranno fatto a gara per riposare in uno spazio fisico posto quanto più possibile in prossimità delle tombe dei nostri Martiri. Sopravvive difatti l’eloquente detto in vernacolo, «jirz’n da san Pr’miane», il quale bene esprime l’atteggiamento di riverenza mostrato verso il “morto eccellente” appartenuto alla locale comunità. Del resto la presenza di sepolture più tarde all’interno della Basilica paleocristiana di IV-V secolo è stata ipotizzata proprio da chi ne riportò alla luce i resti (Intervista al Sovrintendente Cianfarani, “Il Momento-Sera” del 2 settembre 1948, in U. Pietrantonio, Considerazioni e Osservazioni…, App.).
La depositio ad sanctos è ben documentata dalla storiografia ufficiale nonché dall’epigrafia. Tombe di fedeli cristiani erano localizzate soprattutto intorno alle absidi delle chiese, in una posizione la più vicina possibile alle sacre reliquie e all’altare dov’era offerto il sacrificio eucaristico. Tra il IX e l’XI secolo, l’area posta nelle vicinanze di un edificio di culto in cui si venerava un martire o un confessore divenne il luogo più ricercato per l’inumazione dei defunti e le tombe, fino a quel tempo disperse nelle necropoli in aperta campagna, vennero progressivamente concentrate, dando vita ai cimiteri collocati nelle adiacenze delle chiese.
Questo fenomeno contribuì notevolmente ad inserire in modo sempre più stabile il Cristianesimo nello spazio fisico, dando vita a una vera e propria territorializzazione del sacro. Si moltiplicarono i santuari e conseguentemente anche i pellegrinaggi verso di essi, visto che non poteva esistere santuario senza un costante flusso di persone che lo andasse a visitare più o meno ciclicamente.
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esempi di depositio ad sanctos
Dettero un apporto determinante a questo significativo fenomeno i monasteri, soprattutto benedettini, disseminati quasi uniformemente in ogni contrada d’Europa, i quali consentirono a che si desse vita a una nuova geografia religiosa della Cristianità, concepita e vissuta come uno spazio omogeneo che si era andato strutturando intorno a un determinato numero di luoghi sacri, che finirono per assumere valenza di poli di attrazione e assai spesso anche di protezione.
Tra questi insediamenti monastici, assai rilevante il ruolo di quelli che disponevano di reliquie di martiri e confessori, specie se fondatori di una determinata comunità. I loro abati e priori s’impegnarono a metterle nel rilievo dovuto, organizzando esposizioni e traslazioni solenni, commissionando talvolta testi agiografici che però avevano quasi sempre scarsa attendibilità, visto che il più delle volte l’obiettivo principale della narrazione era quello di mettere in evidenza la santità del luogo in cui riposavano le reliquie, piuttosto che rendere al vero l’opera e i meriti di colui che giaceva sepolto nella nuda terra, di cui spesso si sapeva assai poco [F. Graus, Le funzioni del culto dei santi e della leggenda, in Agiografia altomedievale, Bologna 1976; A. Vauchez, L’espansione dei pellegrinaggi in Occidente, «Il mondo della Bibbia» 3 (2005), pp. 32-39].
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Il Cianfarani, nella suddetta intervista, ha ipotizzato l’inumazione dei Martiri Larinesi in strutture di tipo catacombale (Intervista cit.).
Per l’escavazione sotterranea di un cimitero ipogeo erano indispensabili due fattori: possedere o poter disporre di un’area in superficie e trovare un terreno che, per le sue caratteristiche chimico-fisiche, consentisse l’apertura di gallerie nelle sue viscere. Spesso si sceglieva un sito in cui la gibbosità di una collina facilitasse il compito (P. Testini, Archeologia cristiana cit., pp. 93-95). La catacomba di Ponziano, ad es., si svolge all’interno della collina di Monteverde (ibid., p. 190).
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Rileviamo che queste caratteristiche sono presenti nel nostro sito; pertanto la possibilità tecnica di scavare catacombe nella zona è del tutto plausibile, data la notevole presenza di ottimo tufo – nel quale sono pure scavate le numerose catacombe romane –, facile a lavorarsi e piuttosto affidabile staticamente, in buona parte del territorio cittadino. Nel tufo, ad es., venne scavata la cavea del locale Anfiteatro (A. Vitiello et al., L’anfiteatro di Larino, p. 76) e con blocchi di tufo si costruirono edifici, anche di grandi dimensioni e sin dal III-II secolo a.C., nella vasta zona pubblica tra le attuali Via Jovine, Torre Sant’Anna, zona Anfiteatro. Veniva adoperato per lo più per i basamenti degli edifici, data la difficoltà ad essere intagliato in blocchi regolari (A. Di Niro, La zona frentana tra IV e I sec. a.C., in Samnium, pp. 133-134; L.M. Caliò-A. Lepone-E. Lippolis, Larinum: the development of the forum area, p. 93); vd. anche l’uso che se ne fece nello scorso secolo, in N. Stelluti, Larino Piano San Leonardo Tufo & C, pp. 123-144.
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Nell’Alto Medioevo ecco che c’imbattiamo nei primi casi di uso del centro abitato di Larino, seppure in gran parte abbandonato, per ricavarvi sporadiche sepolture: alla fine del VI-inizio del VII secolo, alcune tombe vengono scavate all’interno dell’Anfiteatro cittadino, ormai in disuso, vista la incipiente destrutturazione della trama abitativa (P. De Tata, Sepolture altomedievali dall’anfiteatro di Larinum, pp. 94-103; Ead., L’anfiteatro romano di Larinum, pp. 134-137). Ritroviamo tombe di fortuna in altre aree del tessuto urbano, come ad es. a settentrione dell’area forense, in località Guardiola (E. De Felice, Larinum, pp. 107 e n. 427, 108, n.ro 1, 136, con fig. 130) o a ridosso dell’edificio recentemente identificato come prætorium (L.M. Caliò-M. Lepone-E. Lippolis, loc. cit., pp. 99, 106).
La consuetudine di seppellire intra urbem è documentata sin dal VI secolo nella stessa Roma, dove troviamo cimiteri sull’Esquilino, nel Castro Pretorio, in Trastevere e a nord del Colosseo, sotto le terme di Tito; come pure avvenne in altre città, quali Ravenna e Perugia (P. Testini, Archeologia Cristiana cit., p. 162; per approfondimenti: E. Dyggve, L’origine del cimitero entro la cinta della città, VIII/2, Roma 1953, pp. 137-141; C. Lambert, Le sepolture in urbe nella norma e nella prassi, pp. 285-293).
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Con la fondazione del monastero benedettino di San Primiano, tutta l’area limitrofa cessò, probabilmente in modo graduale, di essere zona cimiteriale a tutti gli effetti. Altri cominciarono ad essere gli spazi pubblici riservati al seppellimento dei defunti, soprattutto quando parte degli abitanti cominciò a concentrarsi al di là del torrente Vallone della Terra.
Nella città medievale per questa incombenza esistevano le chiese, dove i morti venivano seppelliti in fosse comuni o patronali di famiglia, senza cassa. Il Magliano ci riporta che nella Cattedrale, in un soccorpo situato sotto il presbiterio, si seppellivano tutti i morti, in Santo Sefano i membri della Confraternita dei morti, in San Giacomo i morti nell’Ospedale, in Santa Caterina i morti senza sacramenti (A. Magliano, Brevi Cenni storici, pp. 40, 56, n. 1, 88; M.S. Calò Mariani, Due cattedrali del Molise..., p. 84).
Nelle chiese, in un primo tempo, furono pure inumate le migliaia di corpi durante la terribile epidemia di peste del 1656 (G.A. Tria, Memorie Storiche…, pp. 251, 718; G. e A. Magliano, Larino, p. 222, 274 ss.; A. Magliano, op. cit., pp. 65-66), i cui resti furono in seguito interrati nelle cisterne vuote poste al di sotto dell’ex Palazzo comitale (G. Mammarella, Larino sacra, II, p. 50).
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Più tardi, ai tempi di mons. Pianetti (1706-1725), un cimitero venne costruito di fronte alla Cattedrale
(G.A. Tria, op. cit., p. 311; G. e A. Magliano, op. cit., p. 214; A. Magliano,
op. cit., p. 88) – poi demolito da mons. Lupoli (1818-1827) per farne la parte meridionale del Seminario [G. e A. Magliano,
op. cit., pp. 213, n. (b), 250] –, e nel 1754 si deliberò di costruirne un altro nei pressi dell’attuale Largo Garibaldi, mai
ultimato, nel luogo detto la Riconca [ibid., p. 32, n. (b)], nell’antico Catasto denominato “contrada Cimitero”. Poco dopo la legge istitutiva dei cimiteri
extraurbani del 1821, si tolsero le ossa dalle chiese per tumularle nella diruta cappella di Sant’Antonio (ibid.),
ingrandita nel 1825 e completata con altre fosse, posta in prossimità dell’abitato, lungo la strada per Montorio nei Frentani (G. Masciotta, Il Molise dalle origini ai nostri giorni, p. 158). Abbandonata, venne adoperata per depositarvi i carri funebri (A. Magliano, op.
cit., p. 56, n. 1).
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