« Pax vobis! »

ATTENTATO

in piazza S. Pietro

 

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  Domenica 26 gennaio, dopo l’Angelus in piazza San Pietro recitato da Francesco, al termine del consueto gesto della liberazione di due colombe in segno di pace, un gabbiano e una cornacchia si sono avventati contro i due poveri volatili che, essendo l’Appartamento papale senza il suo abituale inquilino oramai da quasi un anno sappiamo che vive ritirato poco lontano , non sono riuscite a trovare rifugio nel-
 
 

le Sacre Stanze. Il gabbiano ha potuto quindi facilmente lanciarsi su una colomba uccidendola, mentre la sua compagna dal grigio piumaggio non è riuscita nell’analoga impresa, e la colomba superstite è scampata allattentato.

 

 

C’è chi ha voluto vedere nel triste accadimento un segno nefasto. Il gabbiano, nella Sacra Scrittura, è considerato un animale impuro:

 

Fra i volatili saranno obbrobriosi questi, che non dovete mangiare, perché obbrobriosi: l’aquila, l’avvoltoio e l’aquila di mare, il nibbio e ogni specie di falco, ogni specie di corvo, lo struzzo, la civetta, il gabbiano e ogni specie di corvo (Lv 11,13-15).

 

Uccelli rapaci erano pure i volatili che si erano avventati sulle offerte di Abramo al Signore Dio (Gn 15,11), segno fatale impresso sulla sua discendenza, che sarebbe andata incontro alla persecuzione.

 

Da ultimo, questo volatile è balzato agli onori delle gazzette letterarie per un romazo di successo, Il gabbiano Jonathan Livingston, dello scrittore americano Richard Bach. Chi ha letto il libro saprà cosa racconta: un gabbiano un po’ solitario, desideroso di imparare a volare in modo “perfetto”, che s’imbatte in uno stormo di altri gabbiani che lo introducono nel cosiddetto “Paradiso dei gabbiani” –  e tuttavia pur sempre un livello transitorio –, necessario per accedere ad altri livelli di più alta “perfezione”: metafora fin troppo eloquente, questo libro di facile successo, e perciò molto apprezzato dai framassoni.

 

La colomba, invece, è un uccello che simboleggia ben altro. Il ramoscello d’ulivo che vediamo inciso nel suo becco sulle lapidi dei primi cristiani ci ricorda la promessa di nuova pace al tempo del diluvio, quando Noè, al settimo giorno, vide ritornare proprio questo piccolo animale con nel becco una tenera foglia d’ulivo (Gn 8,11): il ciclo vitale si era dunque rinnovato. Era il segno tanto atteso dal patriarca: le acque si erano ritirate, l’Onnipotente si era ricordato della sua promessa. Sulla terra purificata e rigenerata, una nuova alleanza veniva infine suggellata dall’arcobaleno disteso tra Dio e gli uomini (Gn 9,12ss).

 

Rincresce constatare quanto nei nostri malaugurati tempi, di entrambi i simboli biblici si sia fatto un uso distorto, tanto che oramai la colomba della pace ha assunto un significato tutt’affatto diverso, e l’arcobaleno appare svolazzante nel mezzo di ogni sorta di manifestazione, quasi mai sinceramente e profondamente intrisa di contenuti veramente cristiani.

 

La pace, dunque. Una nuova alleanza tra Dio e gli uomini, che nel sangue di Cristo troverà il suggello ultimo. Questa vera “pace” cristiana, però, costa la fatica e la sofferenza dei suoi discepoli: isolati, derisi, perseguitati, uccisi. E tuttavia, essi soltanto potranno edificare e conseguire la vera “pace”. Essi hanno chiaro in mente quel che il Signore lasciò detto:

 

«Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada» (Mt 10,34).

 

È dunque questo il termine di paragone – la sua Parola, il suo insegnamento –, quella spada a doppio taglio capace di dividere il Bene dal Male, il Vero dal Falso. Un criterio eterno ed assoluto, su cui realmente è possibile edificare la vera “pace”.

 

 

Ed  oggi, invece, cosa possiamo dire, alla luce degli ultimi eventi, seppure apparentemente marginali, riguardo a questa parola: “pace”?

 

Abbiamo assistito, meno di un mese fa, al cambio di rotta impresso dai nuovi reggitori della Chiesa: fraternità, fondamento e via per la pace. Era questo il tema principale della Giornata Mondiale della Pace ultima scorsa.

Non è più il Salvatore del mondo la via e il fondamento della pace, ma un sentimento umano – dunque relativo – la “fraternità”, cui è demandato l’esclusivo compito di edificare un valore assoluto e definitivo che è la “pace”.

 

Che pace potrà mai essere? Potrà durare?

No. Non vi potrà essere alcuna pace, ed anzi presto questa falsa pace darà i suoi velenosi frutti: disastri immani.

 

I primi cristiani incidevano a chiare lettere sulle lapidi dei loro morti l’invocazione “in pace Christi”: nella pace di Cristo, nellunione con Dio in cui lanima del defunto si trovava come immersa, ma che per un suo discepolo principia già in questo prologo terreno. Per essi non vi era alcun dubbio che la vera “pace” non poteva che aversi addivenendo a una completa “consanguineità con Cristo. Era una “pace” che potremmo definire “sacramentale”, in cui ogni cristiano degno di questo nome è chiamato a seguirLo, nella buona e cattiva sorte, trovandone la forza nel Sacramento dell’altare. Essa è la vera “pace” cui ogni buon cristiano dovrebbe anelare. È il nostro vero traguardo.

 

Ed invece, in questa Nuova Chiesa retta da colui che è stato chiamato «dalla fine del mondo», questi semplici concetti non hanno più alcun valore: quella colomba antica che Noè fece volare dall’arca per un’ultima volta, si librò nell’aria tersa dei cieli nuovi e non fece più ritorno. La sua infelice sorella, che volteggiava ignara nei cieli plumbei di Roma, è stramazzata al suolo, inchiodata al suo destino da un uccello rapace ed affamato. Morta stecchita.

 

«Pax vobis!»

 

Pubblicato MARTEDÌ, 28 GENNAIO 2014

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